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«Mi hanno rovinato la vita e non ero dopata»

La positività accertata il 29 gennaio scorso, e riguardante la prova Tricolore di Segrate (Milano) del 10 gennaio (seconda alle spalle di Eva Lechner). Poi le controanalisi del 2 aprile, che erano un vero e proprio colpo di scena: nelle urine contenute nel campione B non c’è più traccia di Cera. Ieri, la richiesta da parte della Procura Antidoping del Coni di archiviazione del caso Vania Rossi, la 26enne compagna di Riccardo Riccò, la madre che si sarebbe dovuta dopare, con un bimbo di pochi mesi ancora da allattare.
«Mi hanno fatto passare per una madre scellerata, per una donna senza scrupoli ­ ci racconta Vania, subito dopo aver ricevuto la notizia della richiesta di archiviazione -. Io e la mia famiglia abbiamo passato mesi terribili. So solo io cosa ho dovuto ingoiare per non impazzire. Mi sono aggrappata ad Alberto, al mio piccolo amore, per non lasciarmi andare. Riccardo (Riccò, squalificato per 20 mesi, dopo la positività al Tour 2008, ndr) era fuori dalla grazia di Dio. Non mi credeva assolutamente. Temeva che io avessi fatto ricorso a pratiche illecite, mentre io stavo ancora allattando il nostro bimbo».
Un rapporto che ha rischiato di finire.
«In pratica, per un certo periodo, è finito. Poi le cose hanno cominciato a prendere una piega giusta e tra noi è tornato il sereno: ora viviamo assieme a Serramazzoni. Ma io mi chiedo: chi mi ripagherà per quello che ho passato?».
La giustizia ha però prevalso.
«Sì, ma a che prezzo? Mi dicevano: è vero, nelle controanalisi non ci sono più i livelli minimi richiesti di Cera previsti dalla Wada, si è come deteriorato con il tempo, ma qualcosa c’è. La verità però è che il Cera si trova con un controllo indiretto. Si trovano grazie a delle proteine riconducibili al Cera, e questo metodo, a mio avviso, non è affidabile».
È un’affermazione grave.
«Grave è quello che mi hanno fatto e quello che ho dovuto sopportare. Mi creda, per le controanalisi ho passato dieci ore all’Acqua Acetosa e ho perso due chili. Nessuno sa a cosa ci si deve sottoporre. Ma questo è il meno: quello che non eccetto, è che tutti noi possiamo sbagliare, ma ci sono alcuni che l’errore proprio non vogliono ammetterlo, nemmeno sotto tortura».
Cosa si sente di dire?
«Grazie alla mia famiglia, a Riccardo che alla fine ha capito e all’Esercito per il quale lavoro (è caporalmaggiore, ndr) da tre anni, e che fin da subito mi ha rimesso in servizio e non mi ha mai fatta sentire una pecora nera e adesso vorrebbe che io tornassi a correre».
Tornerà a correre?
«Sono spaventata. Ho paura. Vado in bicicletta solo per passione e divertimento.

Ma rimettermi il numero sulla schiena proprio non me la sento: io non mi fido più dell’antidoping».

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