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"Mi sono ispirata ai polipi e ho creato il robot del futuro"

Insegna a Pisa ed è tra i guru mondiali nel campo dell'automazione: «Le macchine non rubano il lavoro, rendono più facile la vita»

"Mi sono ispirata ai polipi e ho creato il robot del futuro"

Cecilia Laschi ha fatto una scoperta alla Leonardo da Vinci. Partendo dall'osservazione del mondo animale, ha creato la prima generazione di robot morbidi e flessibili. Dopo aver studiato i movimenti del polpo, è approdata a Octopus: un robot soffice di prima generazione, nato nei laboratori dell'Istituto di Bio-Robotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa dove Laschi è professore ordinario di Bioingegneria Industriale.

Cinquant'anni, di Follonica, la scienziata ha portato la morbidezza nella roccaforte della rigidità regalando all'Italia il primato in un settore - la robotica - in cui di fatto il nostro Paese brilla. Già inserita tra le 25 donne più influenti del settore, secondo RoboHub, network internazionale di esperti di robotica, quest'estate al Festival dei 2Mondi di Spoleto è stata insignita del Premio Carla Fendi. L'edizione 2019 era - di fatto - intitolata Ecce Robot

Partiamo da un tema caldo: i robot ci rubano il lavoro, teme qualcuno

«Non è vero, andranno a migliorare il nostro stile di vita. Semmai sono i tanti strumenti messi a disposizione dal web a rendere gratuito il nostro lavoro. Strumenti pensati per utilizzare i nostri dati e che finiscono per concentrare i profitti nelle mani di pochi. Peccato, perché se usati correttamente potrebbero essere strumenti di uguaglianza. Si continua a ignorare un problema che non è di natura tecnologica, ma di ordine economico e sociale».

Che cosa intende?

«Che il mondo del lavoro sta vivendo una trasformazione epocale. Il robot non ruba il lavoro, siamo noi che rubiamo i lavori. Siamo diventati commessi, agenti di viaggio, cassieri, impiegati di banche: arriviamo in fondo alla giornata dopo aver fatto almeno dieci lavori in più rispetto al nostro. Io sarei contenta se qualcun altro facesse per me tutto questo, potrei così dedicarmi in modo esclusivo alla professione che amo. Ma finisco per fare di tutto perché c'è l'app, perché con un clic ti crei il servizio. Quindi il punto non è che non c'è lavoro, è che c'è tanto lavoro gratuito. Temiamo di perderlo con l'avvento dei robot, che potrebbero fare il lavoro fisico, ma non ci scandalizziamo se ci rubano il lavoro intellettuale. Dovremmo tenerci strette le nostre capacità cognitive delegando ai robot le operazioni più stressanti e faticose».

Per esempio?

«Ci sono molti lavori che deleghiamo a persone meno fortunate di noi, spesso sfruttate, come ci ricordano alcuni casi di cronaca sulla raccolta di frutta o verdura. Perché far lavorare la gente sotto il sole cocente? È possibile che non siamo ancora riusciti a fare un robot che vada dentro le cisterne? È assurdo. Non abbiamo problemi a usare i traduttori digitali, e quelli sì che rubano il lavoro, mentre continuiamo a mandare gente nelle cisterne a rischiare la vita».

Ma lei affiderebbe un paziente a infermieri-robot?

«Quelli dell'infermiere o della badante sono mestieri costruiti sull'interazione e l'empatia, c'è un tasso di umanità che non è replicabile da nessuna macchina. Hanno capacità non riproducibili. Teniamoci dunque la parte umana, ma perché lasciare che le persone si spezzino la schiena muovendo i pazienti? Mi sembrerebbe più ragionevole cedere la parte fisica alle macchine, così da poterci riservare il meglio. Chi piangerebbe se in casa avessimo robot che fanno tutte le pulizie?

L'Octopus è una sua creazione. Ci descriva la gioia del pioniere.

«Chi fa ricerca è sempre un po' un pioniere perché inevitabilmente va a spostare il confine di quello che si conosce. Un atteggiamento che appartiene alla mia natura, mi piace cambiare continuamente, anche i soggetti di indagine. Magari è più un difetto che un pregio, ma è più forte di me. Arrivata alla soluzione, scatta l'esigenza di passare a qualcosa di nuovo.

Prendendosi i rischi del caso...

«Sì, si prendono dei rischi. Quando fai cose in cui non sei perfettamente competente, hai una visione diversa, imbocchi strade non percorse. Può essere che non siano state percorse perché erano sbagliate, ma potrebbero anche aprirsi nuovi orizzonti».

Lei è un'informatica prestata alla robotica.

«Scienze dell'Informazione, così si chiamava il mio corso di Laurea, faceva parte della facoltà di Scienze fisiche e naturali. L'approccio era molto teorico e scientifico, non ingegneristico. Ma quando incappai nella robotica, si aprì un mondo diverso. Sentivo che avrei potuto applicare le mie conoscenze fisiche e matematiche a un oggetto fisico, capace di movimento. Fu una folgorazione.

Si è laureata a Pisa nel 1993. Allora a che punto erano i robot?

«A buon punto. È iniziato tutto intorno agli anni Sessanta con la prima installazione di un robot industriale in un impianto della General Motors. Il primo braccio robotico programmabile in grado di eseguire compiti era stato sviluppato da George Devol e Joe Engelberger. I robot venivano impiegati nelle fabbriche, sfruttati per il fatto di essere riprogrammabili. Oggi non si fa produzione senza robot, quasi tutti gli oggetti che usiamo sono stati creati usando macchine. Del resto, le loro performance sono straordinarie, riescono a lavorare 40mila ore prima di avere un problema: un numero impressionante soprattutto se facciamo il confronto con i computer».

E i robot in grado di compiere operazioni più complesse?

«Facevano i primi passi. Per questo, una volta laureata, decisi di fare un dottorato dell'Università di Genova, in collaborazione con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Si pensava: il braccio robotico funziona bene, usiamolo anche per fare le pulizie o lavori extra-industriali. Si capì che non erano operazioni così semplici e automatiche. Per fare certi compiti in un ambiente normale, la macchina deve essere dotata di intelligenza. Da informatica, iniziai subito a occuparmi del cervello per capirne i meccanismi, così da usarli nei robot».

Lavorava con neuroscienziati?

«Esatto, con il tempo si è capito che questa collaborazione interdisciplinare era essenziale. I neuroscienziati collaboravano volentieri con noi perché vedevano la possibilità di validazione di modelli neuroscientifici su robot. Il beneficio era dunque vicendevole. A noi bastava capire cose semplici sul cervello, i meccanismi per cui individuato l'oggetto, lo si riconosce, scatta il movimento, lo si afferra utilizzando la visione e il tatto. Volevamo capire ciò che sta alla base di meccanismi che per un umano sono banali, ma non per una macchina».

Lei parla sempre al plurale. Come mai?

«Nella ricerca non si è mai soli. Lavoriamo sempre in gruppo. È difficile dire: questa invenzione è la mia».

Però lei coordina il lavoro degli altri.

«Sì, coordino un team che varia dalle 20 alle 40 persone».

Parliamo del team che ha creato Octopus

«Era un progetto veramente pionieristico, c'erano tantissimi aspetti nuovi da affrontare in contemporanea, a partire dai materiali. All'epoca, alcuni componenti dell'équipe erano miei allievi di dottorato e ognuno si concentrò su un argomento di cui divenne poi esperto. E ancora oggi sono tra i migliori a livello internazionale».

Siete rimasti tutti al Sant'Anna?

«Alcuni ricercatori sono nel mio istituto, altri operano in vari centri, in giro per il mondo».

Qualche nome?

«Volentieri. Parto da Matteo Cianchetti. Lui ha studiato il braccio del polpo concentrandosi sui muscoli artificiali. Ha una formazione biomedica, quindi sta proseguendo in questa direzione: ha creato un endoscopio basandosi su queste stesse tecnologie».

Un endoscopio originato da Octopus?

«Sì, perché è uno strumento che ha la capacità di irrigidirsi o di rimanere morbido a seconda dei compiti da svolgere. Come i bracci del polpo, entra morbido nel paziente e poi si irrigidisce se deve prendere campioni oppure operare. Ora Cianchetti sta lavorando a un progetto tutto suo, finanziato dalla Commissione Europea. Sta per fare un cuore artificiale».

Operazione riuscita?

«È a metà del lavoro. Poi voglio citare Egidio Falotico che fa ricerca nel campo della neurorobotica, quindi lavora con neuroscienziati. È una branca che si sta fondendo con la soft robotics, perché stiamo usando le tecniche neurali, basate sull'apprendimento per controllare i robot soft. Le due strade si stanno ricongiungendo».

Siete tutti partiti da un pezzo di polpo.

«Marcello Calisti sta lavorando all'applicazione marina. Nella fase Octopus, si era occupato del modello teorico-matematico che spiega la locomozione, perché una cosa è capire i meccanismi che consentono al polpo di muoversi, un'altra è fare diventare tutto ingegneria».

Ora cosa ha scoperto?

«Ha costruito un robot che esplora il mare, cammina sui fondali sabbiosi e prende campioni del sedimento che poi andiamo ad analizzare. Controlla per esempio se vi sono microplastiche. Il prototipo è stato finanziato dall'azienda Arbi, tra i leader nei prodotti ittici surgelati».

Già testato?

«A Livorno, durante la giornata di pulizia dei fondali...».

Non c'erano già dei robot sottomarini?

«Sì, ma sono dei veicoli mentre questo robot va sui fondali, li esplora, cammina. Per questo sta attirando l'interesse dei biologi, di quanti sono interessati ai temi della biodiversità e dell'ecologia. Ora si parla delle plastiche che galleggiano, e nel conteggio finale manca plastica: dove è andata a finire? Si deduce che va nei sedimenti».

Lei che robot ha in casa?

«Il roomba, il classico aspirapolvere. Poi ho un robot fatto dall'azienda che ho fondato 15 anni fa, RoboTech, una spin off universitaria».

Quindi è una scienziata-imprenditrice...

«È del tutto normale trasformare alcuni risultati in prodotti che poi vanno sul mercato».

Per esempio?

«I-Droid01, un robot umanoide che l'azienda ha realizzato anni fa con la De Agostini. L'intento era educativo, andava ricostruito pezzo dopo pezzo, usciva in fascicoli. Ebbe successo, vennero venduti più di 100mila I-Droid01 in nove Paesi compreso - udite udite - il Giappone che nella robotica è più avanti di noi».

L'Italia è tra i leader della robotica

«Sì, assieme a Giappone e Germania».

Da che cosa nasce questa eccellenza?

«Dalla forte tradizione meccanica, a sua volta stimolata dall'industria automobilistica. Nell'immaginario comune si pensa che siamo il solito fanalino di coda. Invece, alle conferenze internazionali di robotica gli italiani sono molto presenti e autorevoli. Siamo tra i primi, semmai dovremmo investire di più».

Ci convinca

«Non ha senso inseguire i temi alla moda, investire in app per esempio. Lì non riusciremo mai ad essere altamente competitivi, non possiamo fare una seconda Apple. Nella robotica invece la partita è ancora aperta».

La scienza chiede tutto. Lei è riuscita a ritagliarsi uno spazio per sé?

«Occuparsi di ricerca è impegnativo. Io l'ho fatto sempre con passione, da giovane dedicavo tutto il tempo al lavoro, ora ho un po' rallentato: riesco quasi sempre a rientrare per l'ora di cena con il mio compagno, cosa che un tempo non era così scontata».

Sport?

«Ho fatto tanta vela, un po' di sub, ora sono passata all'apnea. Quindi quando riesco, due giorni la settimana faccio piscina e un giorno del weekend si va al mare. Praticare sport mi rigenera e mi obbliga a organizzare al meglio il tempo».

Ma lei sarà organizzatissima.

«Sono molto razionale, questo sì».

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