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"Le mie bottiglie di vino aiutano a guarire"

Per finanziare un ospedale ha piantato una vigna sull'isola africana di Capoverde. Un'impresa, visto che da quelle parti in due anni cadono otto millimetri d'acqua: "Ed è soltanto l'inizio..."

"Le mie bottiglie di vino aiutano a guarire"

Ci sono scommesse che sono più scommesse di altre. E bisogna crederci, bisogna avere fede per vincerle. A padre Ottavio Fasano, 79 anni frate cappuccino del convento di Racconigi, in provincia di Cuneo, la fede non manca. E l'ha messa alla prova tante volte nelle sue missioni. È dal dopoguerra che dai suoi sogni nascono progetti di aiuto e cooperazione. Capoverde, un arcipelago di una decina di isole al largo dell'Africa occidentale, ormai è diventata la sua terra. Nell'isola di Fogo, padre Ottavio è arrivato cinquant'anni fa e non se n'è più andato. Lì con i suoi confratelli cappuccini ha ascoltato ciò che qualcuno gli ha suggerito da molto in alto e ne ha fatto una ricchezza terrena. Ha portato mezzi di trasporto per permettere alla gente del posto di muoversi, ha costruito case per i poveri, un lebbrosario, un museo, un acquedotto. Ma soprattutto ha messo in piedi un ospedale perché qui, fino a qualche anno fa, anche partorire era una questione di vita o di morte. E poi l'ha fatto funzionare con una scommessa. Con l'aiuto di un gruppo di enologi e amici langaroli ha creato una vigna e una cantina che oggi produce 50mila bottiglie l'anno che sono la «benzina» per raccogliere fondi e farlo andare avanti.

Scommessa vinta?

«Sì, forse, ma non è stato facile».

Perché cinquant'anni fa quando è arrivato a Capoverde l'isola di Fogo non era proprio un paradiso...

«Nel 1965 quando sono arrivato ho pianto per una settimana. Fino ad allora avevo solo studiato ma non conoscevo il mondo, soprattutto non credevo ci fossero parti del mondo così».

Cosa l'aveva colpita?

«Ho capito davvero cosa fosse la povertà. Cosa volesse dire morire di fame o di parto. Ho capito per la prima volta cosa fosse la morte».

Non era preparato?

«No. Avevo letto il Vangelo e avevo un'idea solo teorica della povertà. Immaginavo ma non pensavo che tutta quella sofferenza potesse esistere davvero. Così dopo sette giorni di tormenti e di disperazione dissi a me stesso: Tu non hai famiglia, non devi essere egoista, non devi scappare. Questo è il posto dove puoi davvero dare una mano».

E restò...

«Restai. È da cinquant'anni che sono lì. Ogni tanto torno in Italia dove ho ancora tanti legami ma poi devo ripartire. Il mio posto è su quell'isola».

Però ora è cambiato quasi tutto.

«Quando siamo arrivati qui abbiamo pensato che il primo passo per cambiare qualcosa fosse un ospedale. All'inizio fu un lebbrosario perché cinquant'anni fa il problema era quello e sull'isola si moriva di lebbra. Poi fortunatamente e con tanta fatica, negli anni '90 la lebbra fu debellata».

E allora?

«E allora serviva un ospedale vero che affrontasse subito un'altra emergenza perché sull'isola di Fogo le donne morivano di parto. Morivano perché i cordoni ombelicali si tagliavano con i coltelli e non c'era nessuna struttura che potesse fare i tagli cesarei che erano quasi sempre necessari perché tutte la capoverdiane, abituate per cultura a trasportare grandi pesi mettendoseli in testa, avevano i bacini strettissimi».

E così è nato l'ospedale San Francesco di Assisi.

«Nel 1999 fu posata la prima pietra e nel 2002 lo abbiamo inaugurato. Ora ha due sale operatorie ma è stato costruito piano piano, con tanto sacrificio e tanta passione. Soprattutto da parte dei medici italiani che vengono come volontari. Ed è ciò che ha fatto la differenza. Ancora oggi il ministro della sanità di Capoverde mi chiede ginecologi e pediatri. C'è bisogno. Anzi lo scriva: che se c'è qualche medico che ci vuole dare una mano noi lo accogliamo a braccia aperte».

Come siete riusciti a costruire un ospedale laggiù?

«È stato un cammino».

Difficile?

«Molto».

E non si è mai scoraggiato?

«Sì, lo confesso. A volte c'è il buio ma è proprio nei momenti di difficoltà che il Padreterno mi dà la luce. Mi aiuta a vedere le cose, che così prendono forma e allora mi torna il coraggio».

E il cammino riprende...

«Grazie anche alla gente semplice che conosce la povertà e la sofferenza. Poi sono arrivate le donazioni perché ci si può fare in quattro ma la buona volontà da sola non basta. È stato un lavoro di raccolta continuo, porta a porta, di beneficenza, incontri, cene. Se mi chiede quanto è costato l'ospedale San Francesco le rispondo che non lo so. È costato tanta fatica che però abbiamo condiviso in tantissimi. E tutte belle persone».

Ma ancora oggi l'ospedale non va avanti da sé.

«E come potrebbe? Un ospedale con due sale operatorie per funzionare ha bisogno di risorse. Servono attrezzature, medicinali, cibo...».

Bisognerebbe renderlo autonomo.

«È ciò che sto cercando di fare coinvolgendo i capoverdiani in modo che tutto continui anche quando io non ci sarò più. Diciamo che prima con la beneficenza gli abbiamo portato il pesce, poi gli abbiamo insegnato a pescare e ora dobbiamo spiegarli come cucinarlo e conservarlo...».

Appunto, come?

«Anni fa proprio in uno di quei momenti dove non c'era tanta luce mi è venuta un'idea e penso che qualcuno me l'abbia suggerita. Io che sono di origine langarola, mia mamma è di Alba, ho pensato che piantare una vigna di buon rosso qui potesse essere una risorsa duratura e producendo vino avremmo potuto finanziare l'ospedale di San Francesco».

Detto, fatto...

«Mica tanto. Far crescere una vigna di 30 ettari a 700 metri, su un'isola vulcanica vicina all'Equatore dove dal 2013 a oggi sono scesi solo 8 millimetri di acqua non è come dirlo».Quindi cosa avete fatto?«Ho radunato un po' di miei amici enologi e ci siamo messi studiare il terreno scegliendo dei vitigni del sud dell'Italia perché più adatti. Poi abbiamo comprato a poche lire un paio di ruspe dismesse dall'Esercito ma ancora ben funzionanti per dissodare il terreno e con Amses e Asde, le onlus che seguono i progetti di sviluppo nell'isola di Capoverde, abbiamo costruito una rete idrica di sei chilometri collegata all'acquedotto che garantisse un'irrigazione goccia a goccia».

Un bel lavoro.

«Ottimo. Oggi Vigna Maria Chaves produce 50mila bottiglie di rosso l'anno che vengono imbottigliate, invecchiate, etichettate e imballate nella cantina di Monte Barro e sono la principale fonte di sostentamento dell'ospedale di San Francesco anche se non le possiamo vendere perché siamo una onlus. E nei prossimi anni la produzione aumenterà perché siamo solo all'inizio».

E tutto ciò resterà.

«Volevo lasciare qualcosa qui che servisse a dare autonomia a questa gente. L'elemosina serve solo nelle emergenze, nelle grandi difficoltà. Poi, come dice anche Papa Francesco, bisogna cercare di creare lavoro».

Come con le Case del sole?

«Sono un altro progetto ben avviato. Abbiamo ristrutturato una trentina di alloggi in stile capoverdiano e ci portiamo i benefattori così gli facciamo vedere cosa abbiamo fatto con le loro donazioni. Ma ci portiamo anche i turisti. E le Case del sole diventano fonte di reddito, ci facciamo lavorare le ragazze madri dell'isola che imparano a cucinare, a cucire e con il lavoro diventano indipendenti».

C'è dell'altro?

«Sì, abbiamo costruito un auditorium vicino all'ospedale e serve a conservare e a promuovere la cultura di questa gente a far sì che ne sia orgogliosa».

Cosa le ha reso Capoverde?

«Dico sempre che Dio è fedele. Capoverde mi ha reso tantissimo. La gioia di dedicare la mia vita e la mia intelligenza nel coinvolgere le persone, nel farle crescere, nel dare loro una possibilità che altrimenti non avrebbero avuto».

Si ferma qui?

«Tempo fa al funerale di padre Evaristo finita la cerimonia ho fatto un pezzo di strada con un vecchietto di Fogo. Chiacchieravamo e mi ha detto che padre Evaristo era proprio una brava persona ma che non era dispiaciuto che fosse morto perché l'avevano sepolto a Fogo. E gli faceva piacere che lui diventasse terra nella terra di Capoverde. Ecco, per me vale la stessa cosa. Così, proprio come quando sono arrivato, dopo averci pensato un po' ho chiesto consiglio a chi mi dà la luce e ho deciso.

Mi fermo qui».

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