Cultura e Spettacoli

Le mille meraviglie arabe della biblioteca cristiana

L'Ambrosiana di Milano conserva alcuni dei codici yemeniti più preziosi al mondo. Dai tempi di Federico Borromeo qui si studia la cultura islamica

La Biblioteca Ambrosiana e alcuni manoscritti
La Biblioteca Ambrosiana e alcuni manoscritti

All'inizio della vicenda c'è un investimento di centomila ducati. Cifra che sarebbe bastata per finanziare una bella guerra di medie dimensioni. Che so: un Ducato di Milano contro il resto del mondo. Ma l'arcivescovo Federico Borromeo (1564-1631), cugino di un santo e di un Papa, nonché membro di una delle più potenti famiglie della Lombardia, preferì i libri, la cultura. Questa scelta nessuno può raccontarla meglio di Alessandro Manzoni: «Fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio». Il risultato fu, di nuovo il Gran Lombardo, «questa biblioteca ambrosiana che Federigo ideò con sì animosa lautezza ed eresse, con tanto dispendio, dai fondamenti». Ed eccola ancora lì, a pochi passi da Piazzetta Borromeo. La Biblioteca Ambrosiana regala cultura dal 1609.

A essere incredibile, in epoche in cui il concetto di guerra di religione era la norma è il fatto che quando la biblioteca aprì i battenti, con la mirabolante cifra di 30mila stampati e di migliaia di manoscritti (14mila secondo il Manzoni), già era presente un fondo di manoscritti in lingua araba. Ancora in vita Federico, vennero raccolti ben 224 manoscritti. Federico era curiosissimo di quella cultura come si evince anche dal suo autografo Memorie delli libri da scriversi dal Collegio Ambrosiano : «Intorno alle lingue straniere come Araba, Persiana, Armena, resta il carico di fare le Grammatiche e li dittionari; e quantunque l'Arabo ora si faccia, non per questo sarà tale, che non si possi accrescere di altri codici...». E infatti subito tra i dottori della biblioteca venne arruolato Antonio Giggi: «Hebraicae, Syriacae, Chaldaicae, Arabicae linguae multum peritus».

E non fu una ricerca senza rischi quella effettuata per procurare quei testi preziosi come spiega Monsignor Pier Francesco Fumagalli, il Dottore dell'Ambrosiana più esperto in materia, nonché Direttore della Classe di Studi sull'Estremo Oriente. «Federico mandò Antonio Salmazia assieme a Domenico Gerosolimitano (ovvero rav Semu'el Vivas, che si era fatto battezzare a Venezia) a Corfù per recuperare i manoscritti presenti in Grecia. E si fecero anche grandi sforzi per fornire l'Ambrosiana di un maestro di siriaco. Nel 1609 fu scelto Michele Maronita che si rivelò anche lui un abilissimo cacciatore di manoscritti». Ma si trattava di un lavoro pericoloso, proprio Michele Maronita partì da Venezia nel 1611 e non tornò mai più. Non bastarono i consigli che gli aveva fornito proprio Antonio Salmazia e che sono conservati ancora in Ambrosiana: «Praticare continuamente con le persone ne' luoghi di maggior concorso con amorevolezza et familiarità dal che ne seguirà che per amicitia contratta voluntieri m'avvisavano presso di chi si trovassero libri... Non mai giudicai bene dar fuori denari avanti tratto, per dubbio di perderli, ma io m'obbligava con scrittura e sicurtà d'aspettarli...». Michele Morì ad Aleppo, nel convento dei Francescani prima della fine del 1613. Però non prima di aver spedito a Milano i testi più belli che compongono il fondo antico dell'Ambrosiana. Tra cui la maggior parte degli scritti arabo-cristiani.

Non a tutti quell'iniziativa piacque, così ad esempio recita la testimonianza di Pietro Paolo Bosca sull'inaugurazione dell'Ambrosiana nella sua De origine et statu Bibliothecae Ambrosianae hemidecas del 1672: «Si offrivano agli occhi inorriditi codici dell'empietà Maomettana e la nefanda peste del Corano, diffusa in lettere arabiche, persiane e turche a rovina della Religione cristiana». Ma Federico aveva le idee chiare sulla necessità di conoscere e conservare la cultura islamica. Nel suo Lux Matutina , scritto tra il 1627 e il 1630 e rimasto a lungo inedito, mostra come la conoscenza dell'altro fosse fondamentale alla sua conversione. Il protagonista della brevissima favola è infatti un persiano di fede islamica che racconta di avere avuto una visione mentre era assorto in preghiera alle prime luci dell'alba. Egli viene rapito dall'incanto del cielo e gli appare un venerando re vissuto da cristiano in tempi remotissimi il quale gli espone, attraverso ragionamenti ed esempi, il cuore della fede cristiana. Nel dialogo Federico usa le basi comuni delle religioni monoteiste per esporre le regole del cristianesimo: «È Dio cosa sì grande che ogni natione quantunque barbara e lontana dal conoscimento humano, conviene che confessi esser egli perfettissimo e buonissimo ed eterno». Partire dalla radice comune per convertire attraverso la ragione. Questo era il progetto federiciano, partito nel pieno del clima della Controriforma ma portato avanti con gli strumenti della dottrina e non delle armi.

E questa vocazione alla comprensione e al dialogo (che non era né buonismo né relativismo) all'Ambrosiana è rimasta anche dopo. Il fondo si è arricchito moltissimo. Ai 200 manoscritti arabi della raccolta federiciana si sono aggiunti i 134 manoscritti del medio fondo e le migliaia del nuovo fondo. E tra gli altri spicca una collezione di testi yemeniti praticamente unica al mondo. Circa 1600 manoscritti, noti come collezione Caprotti, dal nome del mercante lombardo Giuseppe Caprotti (1869-1919) che, durante i 34 anni del suo soggiorno nello Yemen, li inviò da San'a. Altre due successive donazioni arricchirono ulteriormente di quasi 250 pezzi la Biblioteca Ambrosiana: l'una, ugualmente di provenienza Caprotti, donata dall'architetto Luca Beltrami (1854-1933), il sistematore della Pinacoteca Vaticana; l'altra costituita dal gruppo di codici legati all'Ambrosiana da Eugenio Griffini (1878-1925), insigne arabista milanese, il cui nome è strettamente connesso alla storia di questo Nuovo Fondo, da lui studiato per vent'anni.

Così non è fuori luogo che in cima alla targa posta vicina alla sala di lettura ci sia una scritta in arabo. «La volle Achille Ratti, ci spiega Monsignor Fumagalli ed è un hadith del dotto arabo Sufyan ibn-Uyayna». Tradotto suona così: «Quando entri in un tesoro, fa' attenzione a non uscire prima d'aver compreso bene ciò che esso contiene». E il tesoro islamico dell'Ambrosiana è sicuramente uno dei maggiori d'Italia, inferiore forse soltanto a quello della Biblioteca Vaticana. Quanto ai manoscritti yemeniti si tratta semplicemente della collezione più grande di tutto il mondo occidentale, come ha scritto l'arabista Renato Traini. Alcuni testi sono assolutamente unici sia per contenuto sia per le immagini che li accompagnano. Ad esempio una versione miniata del Libro degli animali di Al-Gahiz. Il solo sforzo di catalogarlo è stato immane. Oppure l'antichissimo compendio giuridico musulmano di Zeid Ben Ali che fu ritrovato proprio da Eugenio Griffini. Qualcosa di questo tesoro sarà esposto anche nella mostra in tema di Expo che si terrà all'Ambrosiana dal 14 aprile al 12 luglio dove tra altre meraviglie librarie verranno esposte alcune scene miniate di harem. E così nel cuore di Milano e nel cuore di una delle istituzioni più cristiane che ci sia c'è un tesoro in lingua araba.

Un tesoro che altri arabi di oggi forse distruggerebbero perché non ortodosso.

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