Paola Setti
«La Coop sei tu» recita lo spot. Che valga anche per i dipendenti sarà il giudice a stabilirlo. Almeno due di loro hanno trascinato il Gruppo in Tribunale e uno fa un’accusa pesante: mobbing. Fino a quando non sarà stabilita la verità giuridica dei fatti, entrambe le prime udienze sono state rinviate all’autunno, resta tutta questione di punti di vista. Nel frattempo, sono agli atti due storie tutte da raccontare. Quella di Rita Bruzzese, 52 anni e un esaurimento nervoso alle spalle per aver atteso otto anni di essere reinserita full time sul lavoro, che fa causa al gruppo per esser stata sospesa dal servizio. E quella di Stefano Bruzzone, 37 anni, 122 giorni di malattia per «stato ansioso depressivo» e tre perizie che attestano una «sindrome depressiva minore», che, attraverso il Patronato Inca Cgil denuncia all’Inail una lunga serie di discriminazioni da parte dei suoi superiori, non ultimo il trasferimento immediato, due anni fa, da Sestri Ponente a Vado Ligure: «Cinque ore di viaggio per un part-time di quattro ore, con spese a mio carico di 100 euro al mese con uno stipendio di 600». Un provvedimento impugnato in Tribunale.
L’attesa. È il 1988. La madre malata e una famiglia da gestire, Rita Bruzzese chiede il part-time. Richiesta accolta. Fino al 1992. «Vorrei rientrare full-time» chiede al sindacato di categoria Filcams Cgil. «La risposta è stata la stessa fino al 2000: adesso non possiamo». L’esaurimento, i ricoveri, persino l’occupazione dell’ufficio della Filcams all’urlo di: «Non me ne vadoi di qui finché non mi ridate il tempo pieno». Poi, dopo otto anni, il via da parte di Coop. «Ma con orari impossibili, sei, sette ore in cassa senza cambio, le ore aumentate all’improvviso da 38 a 41 e il mio contratto che prima era scomparso e poi si è scoperto esser stato firmato da un’altra persona». Fino alla querela: «Mi accusano di aver inveito in negozio contro i superiori, ma non è vero» racconta Bruzzese. Di fatto, il giudice penale le dà torto. Bruzzese viene sospesa, «da tre anni vivo senza stipendio». Si decide a fare causa ed è solo l’inizio di un’altra lunga battaglia.
«Sono Fantozzi». È il 1995 e tutto inizia con un colpo di fortuna. La chiamata dal Collocamento, un contratto a tempo indeterminato part-time a 20 ore, qualifica di «addetto alla custodia, movimentazione, riassetto, smaltimento delle merci e degli imballi nelle aree esterne e nelle zone di accesso del punto vendita e delle aree di stoccaggio e lavorazione», destinazione: rete di vendita della provincia di Genova. Una festa, «che io sono pure di sinistra». Va tutto a rotoli quasi subito. Perché Bruzzone viene impiegato anche all’interno del negozio «ma la mia qualifica negherebbe questa possibilità». E perché «mi trovavo a svolgere un’attività non considerata, con continue interruzioni, assenza di stimoli e prospettive, che mi ha causato grosse difficoltaà, nonostante abbia sempre mantenuto un comportamento irreprensibile».
La situazione precipita un tardo pomeriggio del febbraio 2004. Timbrando l’uscita, Bruzzone si accorge di non aver timbrato l’entrata alle 14. Cerca chi può segnare a matita l’ora indicata, ma non trova nessuno. «Avevo fretta e ho commesso l’errore di apporre io a matita l’orario di entrata, riproponendomi di regolarizzare la cosa la mattina seguente». Il giorno dopo Bruzzone ammette l’errore ma i superiori la prendono malissimo: lo accusano di essere entrato mezzora in ritardo, minacciano di licenziarlo, poi la punizione: sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 10 giorni («è l’anticamera del licenziamento, con rischio per 2 anni di esser buttato fuori al primo sbaglio») più trasferimento fuori provincia, a Vado Ligure, «nonostante il mio contratto mi destinasse alla provincia di Genova». Lui chiede il ritorno a Genova e vuole chiarezza sulla liceità del trasferimento, «ma l’azienda non risponde, se non per dire a un quotidiano locale che “il dipendente ha cambiato in meglio le sue condizioni lavorative e che ha cambiato mansione perché il servizio da lui svolto sarebbe stato affidato a terzi”». Così, eccolo nella sua nuova sede. Dice che gli hanno cambiato tipo di lavoro, impedendogli di passare di livello. Aggiunge che «han proposto a quasi tutti il passaggio al full time tranne che a me». E racconta di giornate fantozziane. Sveglia alle 5, camminata di 20 minuti fino a Principe, un’ora di treno verso Savona, corsa per prendere al volo la coincidenza con l’autobus numero 9 diretto a Vado, altri 15 minuti di viaggio, altra corsa per timbrare in orario. «In realtà, visto il ritardo quasi quotidiano del treno perdo spesso la coincidenza con il 9 e devo camminare per un chilometro per prendere il 6, quindi arrivo tardi. Il che significa che devo fermarmi a recuperare, con tanti saluti anche alle coincidenze per il ritorno a casa».
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