Entrare ogni mattina in una classe liceale di sessanta allievi, tutti silenziosi e attenti. Correggere le tesi e sapere che ogni candidato ha già cinque, sei offerte di lavoro tra cui scegliere. Presentarsi a un colloquio in università con un valido progetto di ricerca triennale ed essere assunti per tre anni esatti, sapendo che per quella ricerca i soldi ci sono già. Tre scenari possibili, se in Italia listruzione, primaria, secondaria, universitaria, venisse riformata secondo le indicazioni che provengono dai casi deccellenza di tutta Europa, oltre che dagli Stati Uniti.
«Nellultima indagine Ocse-Pisa sui risultati ottenuti dai quindicenni nello studio delle materie scientifiche in oltre 50 Paesi nel mondo, lItalia ha ottenuto pessimi punteggi» spiega Luigi Zingales, docente di Economia allUniversità di Chicago e opinionista del Sole24Ore. «Dobbiamo preoccuparci: media bassa in matematica significa bassa crescita economica». Zingales e un gruppo di docenti di varie università internazionali hanno costituito un team di ricerca che con il metodo della regression analysis ha indagato la correlazione tra la capacità di crescita e innovazione di un Paese e i punteggi ottenuti dai suoi studenti quindicenni, non solo in materie scientifiche, ma anche in comprensione della parola scritta, capacità di risolvere i problemi e background culturale.
«Ci siamo chiesti: che cosa fanno gli altri Paesi per ottenere risultati migliori dei nostri?» dice Zingales, che presenterà al Festival dellEconomia di Trento i risultati della ricerca. «E abbiamo sfatato una serie di luoghi comuni: esiste unalta correlazione tra disciplina e apprendimento, quindi no al permissivismo. I compiti a casa sono più importanti delle ore di lezione e vanno dati in grande quantità. I metodi di insegnamento basati sulla memorizzazione sono deleteri. Cooperazione no, competizione sì: gli studenti devono pensare di dover raggiungere il migliore dei risultati possibile in assoluto e anche rispetto ai propri compagni. E soprattutto due fattori sembrano ininfluenti: il numero basso di studenti per insegnante e il numero alto di ore di insegnamento».
I migliori dal punto di vista dellistruzione risultano i Paesi scandinavi e lEst asiatico. Ma davvero queste nazioni possiedono una cultura educativa superiore a quella dellItalia? «Levidenza - risponde Zingales - parrebbe dimostrare che globalmente esistono sistemi superiori a costi inferiori per la collettività. Prenda il numero di studenti in classe: se è dimostrato che averne molti non influisce sul risultato, perché non creare subito un modello che diminuisca i costi dellinsegnamento?». Vale anche per le università? «La differenza tra i due momenti educativi è abissale. Ma anche per le università vi è una cura possibile: vivere listruzione come un investimento, che come tale deve rispondere alle esigenze del mercato. In Italia i docenti insegnano ciò che sanno, non ciò che serve. Ogni studente costa alla collettività 16mila euro lanno: basta trasformare il costo in un prestito allo studente, che così sceglierà solo luniversità che produca reale capitale umano. Inoltre le università vanno dotate di totale autonomia in modo da poter competere tra loro e sul mercato. Infine, va abolito il valore legale del corso di studi o ci sarà sempre chi lo vuole comprare anche se vuoto di contenuto culturale. Tre fasi di una riforma a costo zero che si può attuare domani».
Se Zingales si preoccupa dei costi del sistema, Roberto Perotti, docente della Bocconi ed ex consulente della Banca Mondiale, che al festival di Trento intervisterà sulla riforma universitaria il ministro Mussi, insiste sullallocazione dei fondi e suggerisce il suo pentalogo per sanare un sistema accademico in situazione «gravissima, altro che punte di eccellenza: quelle dimostrano solo che gli italiani non sono stupidi, non che il sistema funziona. Il sistema peggiorerà ancora, finché chi se lo può permettere andrà a studiare allestero». Ecco i cinque punti: «Creare unagenzia per valutazione di didattica e ricerca che allochi sulla base dei risultati almeno il 30 per cento dei fondi (con la riforma Mussi si arriverebbe al 2 per cento, ndr); permettere alle università di assumere liberamente con stipendi liberi; aumentare i costi per gli studenti, che solo così esigeranno un servizio migliore, e compensare le disparità sociali con borse di studio; abolire le regole imposte per la didattica e consentire di organizzare i corsi liberamente; abolire i concorsi».
Perché ci limitiamo a invidiare gli altri Paesi e non mettiamo in atto riforme come queste? «In parte - dice Perotti - è un fatto culturale.
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