Controcultura

L’uomo che trasformava le cronache sportive in “chanson de geste”

La sua anima si muoveva fra Leopardi e Hemingway,la caducità e il coraggio

L’uomo che trasformava le cronache sportive in “chanson de geste”

Diciannove dicembre 1992: sulle strade della sua e nostra Bassa Gianni Brera ci diceva addio. Come aveva sempre desiderato: in un amen, senza soffrire l'oltraggio dell'«orrida vecchiezza». Di lui si rischia di ricordare soprattutto il polemista del calcio (l'anti-Rivera, il paladino del contropiede), l'inventore di infiniti neologismi sportivi, le sue teorie lombardo-centriche. Insomma il giornalista, pur unico e grande. E si rischia di dimenticare lo scrittore. Perché Gianni Brera è soprattutto un grande scrittore, per il quale l'appellativo «lombardo» è un semplice riferimento alla patria natale, non a un confine letterario.

Come ogni scrittore autentico Brera ha una sua visione del mondo. Come ogni scrittore autentico, diciamo pure poeta, la sua scrittura tende a ribattezzare le cose. Una scrittura che non dà il suo meglio nei romanzi, che Brera scriveva in risicati ritagli di tempo nelle ferie estive a Monterosso al mare, ma piuttosto nelle sue cronache sportive da lui dilatate a chanson de geste, a voli omerici, salvandosi dalla retorica per la raffinata cultura tecnica dell'avvenimento sportivo. E soprattutto la sua scrittura si fa grande negli «arcimatti», quei suoi diari tenuti sul Guerin Sportivo, ma anche su Il Giorno e altri giornali. Pagine «parolibere» (come le chiamava lui): memorie, aneddoti, confessioni, idee, sintesi di cento saggi potenziali, canovacci di libri in embrione, squarci di unpremeditated art. Pagine che non lasciano l'impressione della bozza, ma piuttosto fanno pensare all'arte del «non-finito».

Sottese a queste pagine è una dolente humanitas, l'elegia di un ineluttabile addio che richiama Hemingway da una parte e Leopardi dall'altra. A Papa Ernest era andato sempre più somigliando Brera, anche fisicamente negli ultimi anni con quella cornice di barba a enfatizzare l'atteggiamento e la voce del gran vegliardo che racconta storie e dispensa saggezze accanto al fuoco. E poi il sentimento della morte in agguato, destino ineluttabile da sfidare con il coraggio del vir e la self-dignity, la dignità di sé. Di Leopardi echeggia lo struggimento del passare: non per niente negli «arcimatti» frequentissime ricorrono le citazioni da Le Ricordanze. E, come in Hemingway e Leopardi, la dimensione di una religiosità, se non proprio di una fede. Una religiosità ferita di nostalgia. Di un mondo eroico e primordiale il cui ombelico è San Zenone Po, ribattezzato Pianariva (paese di pianura in riva al fiume) nei racconti. Una religiosità del paesaggio, una sacralità di gesti antichi, nel dramma come nella commedia della vita. Mentre si atteggia a positivista ed esalta la Milano moderna che ha coperto i navigli amati dai poeti, Brera scrive le sue pagine più belle proprio rievocando il mondo pre-industriale, che era poi quello della sua infanzia e adolescenza sui sabbiali dell'Olona e del Po.

Quando, nel 1976, proposi al filologo Augusto Marinoni di affidarmi una tesi di laurea su uno scrittore sportivo di nome Gianni Brera, lui non si scandalizzò: mi chiese soltanto di fargli leggere qualcosa che lo convincesse del diritto di Brera ad essere onorato di una tesi di laurea. Mi limitai a fotocopiare l'incipit di Addio Bicicletta, la biografia romanzata del ciclista Eberardo Pavesi. Così chiude quella citazione: «Il Redefossi nasceva dal Naviglio... Oggi è tutto coperto e ci sferraglia sopra il tram di circonvallazione. Ritorna alla luce molti chilometri oltre Porta Romana: vi sbocca la fogna, impossibile sognarci. Ma quando nacqui vi si specchiava il cielo: ed era il mio oceano. Le donne di Corso Lodi vi andavano a lavare i panni e le stoviglie, sgurandole con la sabbia quarzosa. I lavatoi erano fatti con una semplice tavola di pioppo che quattro gambe da panchetto reggevano fissandosi al fondo. Ho in mente una gran fila di dorsi ricurvi, di sottane rimboccate e di piedi rossi. Ma le donne cantavano ed era assai bello. C'erano anche i pesci e se ne pigliavano all'asciutta in aprile. Fra le pietre viscide del fondo boccheggiavano scardole e carpanelle. Sotto le pietre, rintanate, anguille e dorate tinchette. Vecchie tomaie marcivano scoprendo oscene bocche dentate di chiodi. Qua e là, un bianco d'un coccio di maiolica, un pitale sfondato, culdibicchieri, bottiglie crepe. Al diavolo se ridete pensando al mio oceano. Ciascuno, su questa terra, vive l'infanzia che gli destinano».

Il professor Marinoni lesse d'un fiato: «Hai ragione - mi disse -: Gianni Brera ha pieno diritto di cittadinanza nella repubblica delle Lettere italiane».

Commenti