Mondo

Le donne soldato di Israele Per amore e non per guerra

Il lato rosa della divisa. Dalla "rockettara" alla madre di famiglia sono il 35% dei riservisti dell'esercito

Le donne soldato di Israele Per amore e non per guerra

Gerusalemme - In genere suona il basso in una banda rock a Tel Aviv, ma, quando ci vuole, va alla guerra. È una delle molte donne che servono per circa un mese ogni anno, fino a 46 anni, nell'esercito israeliano. I riservisti mobilitati nell'operazione contro Hamas «Margine di Difesa» sono 60mila. Rina Schogel, 28 anni, sergente di prima classe, è una di loro. L'immagine classica del riservista avvocato, scienziato, panettiere, dentista che molla tutto nel mezzo quando arriva la telefonata e corre al fronte è in genere quella di un maschio. Ma le donne nell'esercito sono circa il 35 per cento, 92 per cento delle posizioni sono disponibili per le soldatesse compresa quella del pilota di F16. È passato un decennio e mezzo da quando la prima donna «ha preso le ali», come dicono qui con commozione, e adesso, anche se non lo si specifica si sa che le donne che non solo devono ma pretendono, persino, di servire come riserviste sono più del solito. «È una guerra senza scelta», spiega Rina, «ho lasciato i gruppi in cui suono e i miei amici anche se così ho perso molte serate di lavoro perché ciò che ho imparato nei miei due anni di militare è di utilità assoluta adesso, in una guerra in cui tutta la popolazione, e specialmente la parte più debole, è attaccata. Voi giornalisti non andate con le macchine da presa dagli etiopi e dai vecchi russi isolati: lo facciamo noi. Quando suona la sirena, quasi non sanno di cosa si tratta, nessuno gli parla...». E allora lei cosa fa? «Gli do spiegazioni nella loro lingua, mi addentro nei quartieri poveri, abbraccio e spiego ai bambini in stato di shock, gli insegno cosa devono fare quando arrivano i missili». Rina è specializzata nella definizione e nella conta dei danni, e sa fungere da nesso fra la gente che si trova, per esempio, in un crollo, e le organizzazioni addette al salvataggio; sa valutare e spiegare il danno, sa valutare secondo le condizioni (l'ora, il luogo, il tipo di abitanti) il danno alla popolazione. «Certi vecchietti ci vedono arrivare durante i bombardamenti e non capiscono bene: ci vogliono dare del cibo, persino del denaro. Penso che abbiamo tolto dall'isolamento tante persone, in particolare tanti Etiopi. Non avrei mai detto che tanti ancora non parlano la nostra lingua, che vivono dove non si sente la sirena». Ma Hamas li odia esattamente come odia Rina che è in divisa, solo perché sono ebrei, e Rina li guida per la mano e insegna loro come salvarsi. Ci sono donne che hanno insistito ad andare nel Miluim, le riserve, anche con la pancia, come Liat Bilinsky, un ufficiale, che spiega: «Quando arriva, tu vuoi esserne parte, aiutare il tuo popolo. Meglio adesso, quando ancora il bambino non c'è, dopo non so se avrei potuto». Altre, con i bambini piccoli, passano il ruolo materno al marito: «Meno male che c'è Gonen», dice Lee Betzer, graziosa capitano 36enne mentre, in questo giorno di tregua, porta Dana di 12 anni e Elà, di 4, a fare una passeggiata. La sera deve rientrare alla base: si accinge ad acquietare ancora una volta Elà che è sicura che la mamma morirà. Anzi, no, tornerà presto, e il papà comunque le farà le cotolette. «Vuole capire il mio compito? Glielo racconto alla rovescia: ieri mi sono trovata per la prima volta dall'altra parte della barricata. Ero con le bambine in macchina quando è suonata la sirena, siamo scese, la piccola piangeva, abbiamo invano cercato rifugio, ci siamo sdraiate per terra con le mani sulla testa, dovevo spiegare e tenerle tranquille. Erano in stato di choc. In quei casi occorre qualcuno dei miei soldati: noi aiutiamo la popolazione a fronteggiare la situazione, aiutiamo i civili in stato di panico. Noi entriamo nelle case il cui tetto è stato sfondato dai missili, nei giardini bruciati, nelle fabbriche distrutte. Lei non sa cosa voglia dire entrare in un pollaio industriale dove tutti gli animali sono stati uccisi da un missile: occorre raccoglierli, seppellirli. In genere la popolazione è protetta dai rifugi e dal sistema antimissili, ma il Paese soffre tanto». Per Lee non è facile lasciare la casa mentre le bambine sono in stato di choc: «Ma tutti i bambini lo sono, e io devo aiutare il mio popolo». Lee ha ancora pochi giorni di servizio e cerca di fare i turni di notte per scappare di giorno dalle bambine. «È stata bella questa giornata di tregua. Noi soldati non diamo giudizi politici ma dopo 18 anni nell'esercito adesso vorrei rivedere i miei compagni dopo un paio d'anni di pace». Rina non ci crede: «I nostri nemici non vogliono parlare, la loro è una guerra ideologica senza remissione.

E ci aspetta a ogni angolo, non solo a Gaza» sospira pensando al lancio di sassi e agli spari dei giorni scorsi a Gerusalemme, dove è andata a trovare i genitori. «Non conosco un solo soldato, uno solo fra tutti i miei amici, che voglia fare del male, uccidere, fare la guerra.

Spero sempre, invano, che dall'altra parte ci sia chi se ne rende conto».

Commenti