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La donna che scoprì il rifugio di Bin Laden ha un nome

La donna faceva parte del team che individuò il covo del leader di al Qaeda. Viene accusata di aver mentito al Congresso

La donna che scoprì il rifugio di Bin Laden ha un nome

Ricordate "Zero Dark Thirty", il film che ricostruiva i dieci anni di caccia a Osama Bin Laden? Al centro della storia c'era Maya, nome di fantasia di una donna di circa 30 anni, la cui intuizione (e testardaggine) avevano permesso alla Cia di individuare il covo di Abbottabad (Pakistan) dove si nascondeva il leader di al Qaeda. Quelli che inizialmente non credevano alla sua tesi (per arrivare a Bin Laden bisogna seguire chi porta i messaggi) l'avevano osteggiata. Ecco perché lei "Distinguished intelligence medal" (massima onorificenza per i servizi segreti) avrebbe voluto riceverla da sola, invece l'hanno avuta anche i suoi colleghi. Ora si conosce il vero nome dell'agente: si tratta di Alfreda Frances Bikowsky, 49 anni. L'ha rivelato il giornalista Gleen Greenwald sul proprio sito, The Intercept. Numero due dell'unità speciale adibita alla cattura di Bin Laden, denominata in codice "Alec Station", su di lei (senza mai rivelarne il nome) hanno scritto la Nbc e il New Yorker, definendola "la regina della tortura".

La Bikowsky è accusata - come altri suoi colleghi - di aver usato metodi brutali per estorcere le confessioni ai prigionieri di Guantanamo e non solo. Avrebbe fatto largo uso di waterboarding, privazione del sonno e molte altre tecniche finite al centro delle polemiche dopo il rapporto della Commissione di vigilanza sui servizi segreti del Senato. Pare che l'agente fosse presente quando venivano torturati Khaled Sheikh Mohammed, il terrorista pachistano considerato "il principale architetto degli attacchi dell'11 settembre", e il saudita Abu Zubeyda. La Bikovsky avrebbe poi scatenato un'inutile caccia all'uomo contro una presunta cellula terroristica nello Stato del Montana, rivelatasi poi una bufala. Ma gli errori, in questo tipo di lavoro, fanno parte del gioco. Le piste su cui lavora non sono tutte fondate.

I problemi maggiori per l'agente nascono da un altro dettaglio non secondario: avrebbe mentito (e non solo lei) al Congresso, dicendo che i metodi utilizzati dalla Cia per gli interrogatori hanno "salvato la vita di centinaia di persone" e sono stati efficaci nella lotta contro al Qaeda. L'inchiesta della Commissione del Senato dice un'altra cosa e, negli Usa, impazza la polemica. Politica ma non solo. Secondo alcuni "Maya" dovrebbe essere processata, e con lei tutti quelli che si sono lasciati prendere la mano mentre indagavano sui terroristi islamici. Altri, invece, credono che sia un'eroina e che abbia fatto solo il suo dovere, aiutando gli Stati Uniti a difendersi.

L'America ancora una volta si divide. 

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