Mondo

Faccia a faccia con Battisti: "Non tornerò mai in Italia"

L'incontro con il terrorista sul lungomare di Cananéia, a pochi giorni dall'arresto al confine con la Bolivia: "Era una trappola". L'arroganza è quella di sempre: "In Brasile faccio quello che voglio"

Faccia a faccia con Battisti: "Non tornerò mai in Italia"

Cananéia (San Paolo) - «Lasciate ogni speranza o voi che entrate». È l’inferno dantesco di chi dopo una mezz’ora buona passata a gridare «Cesare, Cesare!» davanti al cancello di una casa senza ottenere risposta, alla fine deve correre a spedire comunque il pezzo nell’oscura sala dell’unico internet point decente di Cananéia.

Che è un ex villaggio di pescatori a 250 chilometri da San Paolo dove si degustano sì le migliori ostriche del Brasile - e dunque avrebbe tutto per diventare un gioiello del turismo - ma dove internet si pianta più che a Cuba. Riassunto della puntata precedente: Cesare è, ça va sans dire, Battisti, l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, il latitante più ricercato d’Italia che fonti attendibili mi avevano assicurato si fosse rifugiato proprio a Cananéia dopo l’arresto di qualche giorno fa a Corumbá, nel Mato Grosso do Sul, ai confini della Bolivia: 1.600 Km di distanza, non solo geografica.

Informazione poi confermata dall’assistente tuttofare, un brasiliano di nome Paulo che alla fine, vista la mia insistenza, era uscito dalla casa di Battisti dicendo che l’ex terrorista stava riposando. Per ironia del destino proprio un’ora dopo è la figura di Battisti che intravedo sulla porta dell’internet point. Ha in mano un plico di documenti che deve inviare ai suoi avvocati di San Paolo e anche per lui la connessione internet antidiluviana della zona è un problema. Che diventa però l’opportunità finalmente per intervistarlo.

«Non posso parlare - mette subito le mani avanti davanti al primo reporter italiano che si è trovato di fronte dopo l’arresto - ordine dei miei legali». Lo tranquillizzo ricordandogli che due anni prima, al centro sociale Mané Garrincha di San Paolo, avevamo parlato a lungo durante la presentazione del suo ultimo libro, O Cargueiro Sentimental, il «mercantile sentimentale» in italiano, ed avevo conosciuto anche sua moglie Joice Lima. «Sono un disgraziato» dico ridendo stemperando la tensione.

E così alla fine «nessuna intervista ma quattro parole alla Lanchonete do Miguel - il bar dove ogni giorno va a farsi una birretta, ormai una specie di seconda casa – possiamo farle. Ma nessuna intervista, per quella ci dobbiamo sentire giovedì». Ci scambiamo i cellulari, tanto so che nell’intervista ufficiale, semmai me la concederà, mi ripeterebbe la narrativa di sempre. E cioè che non ha mai sparato, che lo hanno messo in mezzo con le menzogne dei pentiti, che i suoi processi sono stati tutti manipolati, che non chiede perdono alle vittime perché non ha fatto nulla e può solo dire loro che gli spiace per la sofferenza che hanno patito, che non torna in Italia perché teme per la sua vita.

No, «nessuna intervista concordata» ma più di un’ora al bar di Miguel va pure meglio. «Non sono mica così stupido» esordisce. «Ma tu pensi che se avessi voluto andarmene sarei scappato da Corumbá?» è lui stesso a chiedermelo. «Sì e lo avrei fatto proprio portandomi dietro due avvocati come hai fatto tu» penso tra me e me, ma alla fine rispondo con un «certo, certo». In televisione al bar di Miguel i pochi avventori, intanto, stanno guardando la partita degli Azzurri con l’Albania. Anche Battisti, tra un bicchiere di birra e l’altro, ogni tanto dà un’occhiata allo schermo. Quasi inevitabile, perciò, la sua domanda «ma come è messa l’Italia?». Lo informo che no, non è messa tanto bene, «allora è piazzata come l’Argentina – ride con Paulo che ci accompagna con un’altra birra Itaipava (una marca verde-oro, ndr) -, andrà agli spareggi».

Nessuna intervista ma non posso non chiedergli: «Perché riesci sempre a metterti nei casini?». Mi guarda negli occhi e si lascia finalmente andare un po’. «Erano almeno quattro mesi che mi stavano dietro per organizzarmi questo trappolone, mi hanno voluto incastrare ma io non ho fatto un bel nulla e sono sicuro che con i documenti che ho appena mandato a San Paolo i miei avvocati riusciranno ad ottenere la nullità di questo nuovo processo in breve tempo».

Nel frattempo gli arriva un messaggio su Whatsapp, è qualcuno dei suoi legali ad avvisarlo che «ci vogliono i documenti originali», non basta mandare via fax le scartoffie. «Domani li mando col corriere», mi dice con in faccia l’espressione di uno che non ne può più della burocrazia, uno che forse è stanco di fuggire, più che dagli altri da se stesso. «Non posso uscire da Cananéia come mi ha intimato il giudice che mi ha liberato e, allora, tutti questi documenti servono perché - se il pubblico ministero mi vuole sentire - si organizzi qui l’udienza del tribunale, altrimenti come faccio?», sospira. «Ma chi ti ha teso il trappolone?» gli chiedo facendogli notare che, a differenza di anni fa quando i servizi francesi gli diedero una mano, «ora Macron in cambio del 51% di Stx a Fincantieri potrebbe avergli tolto la protezione».

Mi guarda stranito e mi chiede di rimando: «Scusa, ma cos’è Finmeccanica?». Glielo spiego traendo forza da Giobbe ma, man mano che scorrono le birre – alla fine saranno due litri e mezzo ma c’è anche Paulo che beve – mi rendo conto che Battisti è davvero «dissociato dall’Italia». Non solo non tifa per nessuna squadra di calcio di Serie A – «in Brasile tifo per il Corinthians» tiene però a dirmi – ma non sa neanche chi sia Michele Santoro che associa vagamente ad un volto solo quando gli ricordo Samarcanda. «Se in Francia invece di Macron vinceva la Le Pen era molto meglio, almeno ci sarebbe stato più confronto, avrebbero messo subito dei paletti allo smantellamento dello Stato sociale» mi dice, tornando alla mia ipotesi precedente, quasi a dimostrare di volerci credere.

Passiamo poi, alla politica, quella brasiliana immersa da quasi quattro anni in uno scandalo di corruzione che supera almeno 100 volte le tangenti scoperte da Mani pulite e quella italiana, di cui suo malgrado è tornato protagonista dopo l’arresto dello scorso 4 ottobre. Gli pavento la mia ipotesi: Temer era pronto a firmare la tua estradizione ma poi qualcuno dei suoi vecchi alleati (Temer è pur stato cinque anni e mezzo vicepresidente di Dilma Rousseff su indicazione di Lula, ndr) ha fatto pressione su di lui, magari ricattandolo perché quando rubano tutti, tutti sono ricattabili e, dunque, alla fine, uniti. Battisti mi guarda con un sorriso disincantato e poi, a suo modo, mi risponde: «Qui in Brasile ci saranno dieci parlamentari onesti in tutto, gli altri sono corrotti, meglio lasciare perdere. Lula? Sicuramente ha grane (con la giustizia, ndr) più grandi delle mie ma io devo al suo decreto, che dopo cinque anni non è più revocabile, se oggi sono un immigrato con visto permanente e con gli stessi diritti dei brasiliani e, dunque, libero di uscire ed entrare da questo Paese che mi protegge come e quando voglio (questa la tesi difensiva dei suoi avvocati, ndr)».

Fuori comincia a piovigginare e Carlos, il mio autista, scatta una foto con il suo cellulare mentre io e Cesare Battisti seduti alla Lanchonete do Miguel continuiamo a parlare di massimi sistemi – le multinazionali alimentari su cui nessuno fa mai inchieste giornalistiche, la schiavitù e l’ingiustizia che ancora regna in molte parti del Brasile, i crimini ambientali all’ordine del giorno - e, incidentalmente, di cose fattuali. Come l’assedio dei media locali che «stamane hanno fotografato senza nessun rispetto mio figlio di 4 anni, spaventandolo. Sono costretto a non reagire e a mantenere la calma per ovvi motivi, sempre e in ogni caso, ma spesso i giornalisti sono senza rispetto e a volte dei veri filhos da puta».

Gli chiedo se ha mai pensato di lasciare il Brasile. «No, mai. E non solo non ho mai pensato di andarmene in Bolivia dove per me sarebbe la morte civile – senza quest’ultima carcerazione con tutte le perdite di tempo burocratiche avrei già consegnato il mio ultimo libro, che è praticamente finito – ma neanche il Venezuela, come forse pensano molti perché a me il chavismo sin dall’inizio non è mai piaciuto». Gli chiedo se è da tanto che non parla con la sua famiglia, in Italia. «Ho sentito proprio stamane (l’altroieri, ndr) mia cognata. In Italia comunque non tornerò mai».

Gli dico che alla Zanzara, la trasmissione di Cruciani, proprio sua cognata l’ha difeso qualche giorno fa. «Ah, davvero? Strano, non mi ha detto nulla, ma che cos’è la Zanzara e chi è Cruciani?». Forse complice l’internet piantato di Cananéia sembra proprio di trovarci in un «Good bye Lenin» versione terrorismo e di parlare con qualcuno che ha la memoria ferma a decenni fa, un «dissociato dall’Italia» a tutti gli effetti anche perché Cruciani ha scritto un libro proprio su di lui.

Decido di lasciar perdere perché «questa non è un’intervista» ma grazie al mio incontro in uno sperduto internet point di una sperduta cittadina del Brasile - unico giornalista italiano – Battisti parlerà subito dopo solo ad una tv brasiliana per ribadire il concetto alla base della sua strategia difensiva: «Posso uscire dal Brasile quando voglio perché grazie all’irrevocabile decreto Lula non sono un rifugiato bensì un immigrato con visto permanente».

Commenti