Mondo

Immigrazione, l'elogio delle frontiere

Costruiamo muri perché abbiamo cancellato le frontiere tra le nazioni. Il "senza-frontierismo" è la quintessenza del capitalismo

Immigrazione, l'elogio delle frontiere

Il “villaggio globale” crollerà su sé stesso a fronte di un principio indistruttibile, quello di realtà. Il senza-frontierismo tanto celebrato da avidi liberisti ed ingenui terzomondisti ha le ore contate. Perché la libera circolazione di merci, capitali e persone di pari passo con la globalizzazione dei diritti, tra cui il diritto alla mobilità, è diventato un meccanismo insostenibile per qualsiasi Paese europeo. Boldrinismo fa rima con capitalismo, e vice versa. A ricordarcelo è il politologo Alain De Benoist che in un suo manoscritto scriveva “chi critica il capitalismo accettando l’immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe meglio a tacere, mentre chi critica l’immigrazione restando in silenzio sul capitalismo dovrebbe fare altrettanto”.

Non è un caso se i benpensanti di destra come di sinistra hanno inserito la parola “frontiera” nel vocabolario delle espressioni da non dire. C’è voluto uno scrittore marxista e compagno di Che Guevara nel colpo di Stato in Bolivia come Régis Debray, a riportarla nel linguaggio corrente e al centro del nostro immaginario. Nel pamphlet intitolato Elogio delle frontiere (tratto da una conferenza tenuta alla casa franco-giapponese di Tokio il 23 marzo 2010), l’intellò crocfisso dai suoi connazionali per aver osato rompere uno dei tanti tabù del politicamente corretto, pone una dura verità: se da un lato l’orizzonte del consumatore si espande, dall’altro quello degli elettori si contrae. La frontiera che separa le nazioni diventa per Debray un elemento naturale dell’uomo, che allo stesso tempo, conserva la sacralità di un spazio (il termine latino templum – recinto consacrato- deriva dal verbo greco temenos, che significa tagliare) così come l’identità individuale e collettiva di un intero popolo. Così di fronte alla retorica tutta liberal per cui ogni individuo è un cittadino del mondo, in un mondo sempre più standardizzato, la frontiera deve tornare ad imporsi come linea di demarcazione flessibile che non proibisce il passaggio ma impone come prezzo da pagare il “non potersi sentire a casa propria ovunque”.

In tutti i miti creativi, ci spiega nel suo manoscritto, c’è l’idea di separazione: il Dio biblico separa la luce dalle tenebre, le acque che sono sotto i cieli da quelle che sono sopra i cieli. Ed è con questo legame che riconduce la frontiera al mito o meglio svela nel mito il carattere fondante della frontiera, chiamando direttamente in causa l’Europa che per via di un’Unione di Stati articolata intorno all’economia di mercato ha cancellato la sua identità e ora non riesce nemmeno a fare fronte ai flussi migratori in senso lato (da chi è spinto da motivi economici ai rifugiati politici).

Nulla è davvero nuovo se si considera che già nel 2000 la Divisione sulla popolazione delle Nazioni Unite pubblicò proiezioni demografiche relative ad alcuni Paesi particolarmente colpiti dall’invecchiamento e uno di questi scenari ipotizzava che nel 2050 proprio in Italia ci saranno circa 40 milioni di immigrati. Di fronte a questi dati, con lo smantellamento delle frontiere che è sinonimo di perdita di identità, non fa che avverarsi la profezia di Régis Debray: “Se eliminiamo le frontiere, costruiamo muri”, scrive. Si apprende infatti dal pamphlet che dal 1991 si sono innalzati, soprattutto in Eurasia, ben ventisettemila chilometri di frontiere e altri diecimila chilometri sono previsti nel corso dei prossimi dieci anni (dati aggiornati al 2010). Oppure si pensi soltanto alle barriere anti-immigrati nell’Europa dell’Est. L’Ungheria di Victor Orban sta terminando la costruzione del muro lungo il confine con la Serbia, mentre sia Bulgaria che Grecia hanno già edificato barriere analoghe lungo i rispettivi confini con la Turchia. Ma come osserva il giornalista Debray, l’innalzarsi di muri, piuttosto che una degenerazione della frontiera, sia una conseguenza del rifiuto di una demarcazione.

Quella stessa linea di demarcazione che i liberisti e terzomondisti hanno abolito nel nome del profitto, della produttività, e del diritto alla mobilità. È il villaggio globale, bellezza!

Commenti