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La lezione di una secessione democratica

Tanto di cappello agli inglesi che senza troppi problemi hanno ritenuto doveroso prendere sul serio la richiesta scozzese di libertà e democrazia

La lezione di una secessione democratica

In queste ore è davvero difficile prevedere cosa uscirà dalle urne a Edimburgo, dove domenica si voterà per scegliere tra restare uniti a Londra oppure ottenere la totale indipendenza. Abbastanza a sorpresa, gli ultimi sondaggi stanno rovesciando le indicazioni degli ultimi mesi, e così oggi i favorevoli alla divisione - guidato dal leader del National Scottish Party, Alex Salmond - ora sono in vantaggio: anche se solo di un soffio.

Senza dubbio tanto di cappello a una società, quella britannica, che senza troppi problemi ha ritenuto doveroso prendere sul serio la richiesta scozzese di libertà e democrazia e che, di fronte all'avanzata del movimento indipendentista, ha deciso fare ricorso alle urne. In definitiva il Regno Unito ha seguito l'esempio del Canada, dove di fronte al Québec francofono si optò per due volte di far decidere al corpo elettorale.

Altrove le cose vanno diversamente. In Spagna, ad esempio, c'è uno scontro assai duro tra una Catalogna determinata a vedere riconosciuti gli stessi diritti della Scozia, e una Spagna tenacemente a difesa di logiche autoritarie. Nei prossimi giorni, così, nelle strade di Barcellona la popolazione si indirizzerà verso due grandi arterie cittadine - la Via Diagonal e la Gran Via - per disegnare un'enorme «V». La coreografia di massa vuole spettacolarizzare la richiesta di democrazia che viene dai catalani e a cui il potere centrale spagnolo sta rispondendo in termini negativi. Ma analoghe tensioni potrebbe esserci presto in Italia, dato che il governo Renzi ha impugnato dinanzi alla Corte costituzionale due leggi della Regione Veneto in tema di statuto speciale e indipendenza.

Appare insomma evidente la distanza tra le società di tradizione liberale, dove non c'è timore di mettere in discussione anche i confini nazionali, e altri Paesi - tra cui il nostro - caratterizzati da un insieme di retorica statale e rocciosa difesa dell'esistente.

Mentre insomma sul continente europeo, anche nella parte occidentale, rischiamo di avere tensioni che si credevano dimenticate (se si pensa che la Costituzione spagnola legittima perfino il ricorso all'uso delle armi contro una comunità che voglia rendersi indipendente), i britannici si apprestano a darci una bella lezione. E questo va al di là di ogni considerazione anche sensata sull'opportunità o meno, per gli scozzesi, di staccarsi da inglesi, gallesi e nord-irlandesi.

Nel merito dei costi e dei benefici, varie considerazioni sono possibili. I fautori del «no» insistono soprattutto su alcuni temi: sul fatto che gli scozzesi ricevono da Londra più di quanto non diano e sono quindi «assistiti»; sulla possibile trasformazione del rapporto tra la Scozia e l'Unione europea; sulla questione monetaria, poiché non si sa se gli scozzesi continueranno a usare la sterlina o passeranno ad altra valuta (l'euro, ad esempio). Tutte tematiche davvero serie, ma non decisive, poiché è assai più importante sottolineare che - in caso di vittoria dei «sì» - potrebbe prendere avvio una rinascita delle «piccole patrie» destinata a moltiplicare le giurisdizioni e aumentare la concorrenza istituzionale. Esiste infatti ormai ampia concorrenza sul fatto che quando famiglie, individui, capitali e imprese possono scegliere tra molti piccoli Stati, questi ultimi finiscono per funzionare meglio: tassando meno e offrendo servizi di migliore qualità.

L'aver riconosciuto il diritto degli scozzesi a votare sul proprio futuro potrebbe allora produrre significative conseguenze in tutta Europa. E anche se non sappiamo se vinceranno i sì o i no, una cosa appare certa: ed è che in questi giorni a Londra e a Edimburgo hanno vinto la civiltà e un attaccamento alle ragioni della libertà.

Qualcuno - a Roma come a Parigi, a Madrid come Berlino - dovrebbe imparare la lezione.

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