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"La mia fuga nella neve dal gulag del Caro Leader"

Il racconto agghiacciante di un mondo spietato: "Io e mia madre ci rubavamo il cibo a vicenda"

"La mia fuga nella neve dal gulag del Caro Leader"

Abituati come siamo a piangerci addosso per ogni sciocchezza, ascoltare la testimonianza dell'unico scampato vivo a una fuga dai lager della Corea del Nord è un'esperienza, per quanto sconvolgente, vivamente consigliabile a noi occidentali e italiani in particolare. Perché Shin Dong-hyuk, 31 anni, che ha avuto in sorte di vedere la luce dentro il «Campo 14» destinato ai prigionieri politici del suo disgraziato Paese, ha passato i primi 23 anni della sua vita letteralmente all'inferno ma non si lamenta: porta piuttosto la sua preziosa testimonianza perché il mondo sappia e - soprattutto - non taccia. Oggi anche in Italia è possibile saperne di più grazie al libro «Fuga dal Campo 14», scritto con lui dal giornalista americano Blaine Harden ed edito da Codice Edizioni.

«Sono fuggito il 2 gennaio 2005, nel gelo e nella neve - racconta a voce bassa in una libreria milanese il giovane coreano, esile e con un viso da ragazzo, che porta ancora sulle gambe le cicatrici delle ustioni riportate scavalcando la recinzione elettrificata - per una sola ragione: la fame. Non conoscevo il mondo esterno, perché sono nato in prigionia da genitori detenuti forse per aver incontrato degli stranieri. Per il solo fatto di essere venuto al mondo in quelle condizioni ero un «criminale politico». Non sapevo niente, solo che la mia vita, la vita di tutti noi là dentro era orribile: soltanto percosse, offese, sporcizia, lavoro durissimo fino a 15 ore al giorno e soprattutto una fame tremenda e senza tregua. Là dentro quasi nessuno arriva a 50 anni: si muore prima per denutrizione, fatica, infezioni, le gengive nere senza più denti, le ossa indebolite che si rompono. Ho visto fucilare mia madre, che peraltro odiavo per avermi fatto nascere, e mio fratello maggiore, mentre mio padre è tuttora rinchiuso per quanto ne so. Quando ho appreso da nuovi prigionieri che fuori dal campo si poteva mangiare ciò che si voleva, ho deciso di scappare. “Poi mi uccideranno - pensavo - ma almeno morirò contento”».

Dong-hyuk vagò per un mese prima di raggiungere la frontiera cinese, che passò fortunosamente «grazie all'unica persona che mi diede aiuto, una guardia nordcoreana di 17 anni che mi chiese in cambio di portargli un pacchetto di sigarette al mio ritorno. Ma io non sono tornato, e mi dispiace ancora per lui». Nel suo Paese nessuno capì che era un prigioniero evaso, «perché non ero molto diverso dalle persone che incontravo, affamate e impaurite pure loro».

Oggi Shin Dong-hyuk vive in California. Ha trovato il calore umano che nel lager neppure sua madre gli concedeva («mi picchiava e per me era solo una concorrente per un cucchiaio di brodaglia, la parola “amore” non veniva mai pronunciata») ed è diventato l'uomo simbolo del movimento per il rispetto dei diritti umani in Corea del Nord. Un uomo che il regime teme moltissimo, specialmente dopo che l'Onu, anche grazie alla sua testimonianza, ha prodotto un documento in cui accusa Pyongyang di crimini atroci, tra cui lo sfruttamento attraverso la schiavitù e fino alla morte per denutrizione e violenze di centinaia di migliaia di persone innocenti. Il regime di Kim Jong Un - coetaneo di Shin di cui per simbolico paradosso proprio in questi giorni si è diffusa la notizia che soffre di gotta, la malattia dei ricchi che mangiano troppa carne - diffama l'esule, ricevuto pochi giorni fa dal segretario di Stato americano John Kerry, accusandolo di essere un impostore al soldo della Cia che propala falsità per far dimenticare di essere «uno stupratore di minorenni». Lui non si scompone: «Loro mentono sempre, sempre. Non si fermano davanti a nessuna infamia».

Shin è consapevole che, per quanto possa sembrare incredibile, in Occidente c'è chi trova qualcosa di positivo nella Corea del Nord, un Paese che detiene in condizioni spaventose tra 150mila e 200mila prigionieri d'opinione, che affama gran parte della sua popolazione per mantenere nel lusso una casta di politici e militari la cui disumanità ha pochi eguali nella storia e che ricatta i suoi vicini grazie a un arsenale atomico realizzato letteralmente togliendo il pane di bocca ai suoi cittadini. «So anche di politici italiani che sono stati ospiti a Pyongyang e hanno fatto commenti favorevoli- dice pacatamente rispondendo a una domanda del pubblico -. Li avranno trattati benissimo, perché hanno bisogno di loro. Ma il popolo non lo hanno incontrato.

Tra trenta o quarant'anni, quando il regime cadrà, il nostro popolo potrà finalmente dir loro che si devono vergognare».

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