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"Profughi, Isis e attentati: la Turchia di Erdogan"

Can Dundar, in carcere per aver accusato la Turchia di appoggiare l'Isis, racconta il suo Paese e la sua lotta per la libertà di stampa

"Profughi, Isis e attentati: la Turchia di Erdogan"

Dall'inviato a Ischia

«Temo che nell’attentato all’aeroporto di Istanbul si rivolgano contro la Turchia le stesse armi che Erdogan ha fatto passare attraverso i nostri confini perché arrivassero nelle mani dell'Isis». Per aver scritto del traffico di quelle armi verso la Siria Can Dundar a novembre è finito in prigione, con il suo redattore Gul, per 3 mesi e a maggio è stato condannato a 5 anni e 10 mesi. Rivelazione di segreto di stato.
Il direttore del quotidiano d' opposizione Cumhuriyet è venuto in Italia per ricevere il Premio Ischia internazionale di giornalismo per i diritti umani. E quel riconoscimento l’ha dedicato ai 35 giornalisti oggi in prigione nel suo Paese e a sua moglie Dilek, che gli è stata così vicina da salvarlo dall'attentatore che gli ha sparato davanti al tribunale in primavera. Questo mestiere lo fa da 35 anni ma, assicura, «non è mai stato così difficile».

Come spiega l'attentato all'aeroporto Ataturk?
«Istanbul l'ho lasciata un paio di settimane fa, per un tour in alcune città europee, da Bruxelles a Londra, ma presto sarò di nuovo a casa. L'attentato mi sembra il risultato di una politica sbagliata. Prima Erdogan ha accolto i jihadisti da noi e gli ha consentito di arrivare in Siria per combattere per il Califfato, poi la pressione della comunità internazionale e soprattutto degli Stati Uniti lo ha spinto a concedere le basi turche agli aerei che vanno a bombardarli. Il governo ha prima sostenuto gli islamisti perché voleva che combattessero i curdi e che lo liberasse del regime di Assad al di là dei nostri confini e adesso sta pagando per aver cambiato posizione. Sull’attentato grava anche la responsabilità di un'intelligence che non ha funzionato, di allarmi arrivati ma non presi in considerazione».

Sembra che gli attentatori non siano siriani, ma caucasici. Dopo c’è stata la strage di Dacca e le minacce continuano...
«L'Isis è un pericolo per tutto il mondo è ha già colpito tante capitali europee. La Turchia, però , è in una posizione particolare perché confina con le terre del cosiddetto Califfato. Ed è un Paese musulmano, in cui si vive il rischio che qualcuno veda nell'Isis un emblema dell'Islam, cosa che non è. Eppure, è anche il Paese che potrebbe davvero essere l'esempio di una grande stato musulmano moderato, in cui la convivenza pacifica tra diverse fedi è possibile».

Qual'è il messaggio di questo suo tour europeo?
«In Europa si fa l'equazione tra Turchia di oggi ed Erdogan, ma c'è un'altra Turchia ben diversa, occidentale, libera e moderna, che crede nella democrazia come nella parità di genere. Questa Turchia l'Europa dovrebbe sostenere e invece sostiene Erdogan, che non rispetta la democrazia e i diritti umani».

Lei si riferisce anche all'accordo sui profughi e agli ingenti fondi stanziati?
«Quello e' stato un accordo sporco. La Turchia ha avuto il permesso di liberalizzare i visti, senza nessuna garanzia all'Europa che Erdogan non lasciasse andare, come in parte ha già fatto, i profughi verso gli altri Paesi. Quando ho chiesto ai responsabili Ue se avessero un piano B, in questo caso, mi hanno risposto semplicemente di no».

Ora il governo riallaccia i rapporti con Russia e Israele.
«Erdogan deve mostrare all'Europa di avere più alternative e cerca altri partner. Poi il crollo del turismo russo ha provocato molti problemi economici ed è è stato necessario superare l'impasse con Mosca».

Le sembra ancora attuale l'idea di un ingresso della Turchia nell'Ue?
«La verità è che siamo sull'uscio dell'Europa dal 1959, i bambini nati in quell'anno stanno diventando vecchi. E molte riforme sono state fatte proprio in questa prospettiva di integrazione. Paradossalmente, adesso rischieremmo di entrare in una famiglia che, dopo la Brexit, non esiste più . Ma l'isolamento sarebbe ancor più pericoloso».

Ci racconti la sua storia di giornalista e i suoi guai giudiziari.
«A novembre abbiamo fatto un pezzo sul traffico di tir pieni di armi verso la Siria ed Erdogan ci ha minacciato, ha detto che l' avremmo pagata cara. Così è stato, prima io e il mio caporedattore Gul abbiamo fatto 3 mesi di prigione, metà in isolamento e poi a maggio abbiamo avuto una condanna a 5 anni e 10 mesi per tradimento dello Stato, ci è stato ritirato il passaporto e solo da poco mi è stato restituito perché hanno capito che non avevo intenzione di scappare. Oggi la pressione da noi è molto forte sui mass media, ben 35 giornalisti sono detenuti e per questo la Turchia oggi rappresenta la più grande prigione di giornalisti. Ci fanno causa continuamente, ci impediscono di scrivere liberamente, di diffondere notizie vere, di rivelare quello che succede».

Dopo la nostra accusa il governo non ha avuto contraccolpi?
«Nessuna difficoltà, nessun imbarazzo, anche se la notizia era vera. Tutto è stato ignorato e non è nato un dibattito. L' opinione pubblica purtroppo è in una nube di incertezza e di paura, l'opposizione è debole, l' esercito controlla tutto. Ma so che almeno una metà della popolazione è dalla nostra parte. Il problema è che la libertà di stampa è un valore per i paesi democratici e non credo che la Turchia di Erdogan lo sia. Lui ha le mani libere per opprimere la stampa e nessun leader europeo dice nulla. Ho fatto anche un appello diretto a tutti».

Quando è stato?
«Era il terzo giorno di prigione, un giovedì, ero in isolamento e sapevo che la domenica i leader europei si sarebbero riuniti a Bruxelles. Ho scritto a mano 28 lettere, una per ognuno, a per dire che i diritti umani in Turchia dovevano essere difesi. Poi ho atteso davanti la Tv, per sapere se c'erano reazioni. Solo il vostro premier Renzi ha dichiarato di aver ricevuto la lettera e di volerne parlare con gli altri. Ma non è successo niente, anzi tutti si sono congratulati con Erdogan per l'accordo è lui ha avuto mano libera per la repressione. Vorrei che questo cambiasse e i leader europei facessero finalmente qualcosa, per questo sono venuto in giro per le vostre capitali».

Che pensa dell'intervento del Papa sul genocidio armeno?
«Mi ha colpito sentire quelle parole, anche se già tanti parlamenti e governi l'hanno condannato, mettendo in difficoltà Erdogan. Ma purtroppo quando il parlamento tedesco è intervenuto su questo problema, l'effetto è stato di riavvicinare governo e opposizione. Credo che la Turchia debba fare da sola i conti con il suo passato».

Prima di tornare ad Istanbul, che cosa vuole dire ai colleghi giornalisti europei?
«Che raccolgano il nostro testimone, scrivano le cose che noi non possiamo scrivere. Indaghino sui traffici di armi per accertare se siano stati diretti all' Isis e se la Turchia non controllava le frontiere volutamente e le faceva passare. Sarebbe un messaggio forte al mondo: se un giornalista viene fermato, imprigionato, gli altri completeranno il suo lavoro. Questo Premio per me è importante perché l'Europa e Italia ci dicono che non siamo soli, contro la censura e l'oppressione. Vorrei anche che la stampa libera parlasse dei 35 giornalisti in prigione, di cui non si conoscono i nomi, nè le vicende.

Voi che potete dovreste scriverne, parlare con i loro avvocati, magari anche pubblicare i loro articoli».

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