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Monsieur Vieira: «Il calcio italiano come la mia Africa»

L’uomo nuovo della Juve spiega le sue scelte personali e professionali: «Ho deciso di chiudere qui la carriera perché c’è la pressione e la passione folle che mi ricorda quella della mia terra»

Tony Damascelli

nostro inviato a Torino

La pagnotta con una fetta di salame alta così non è proprio il piatto tipico del Senegal e del Capo Verde, da dove Patrick Vieira e la sua famiglia provengono. Nemmeno la bottiglietta di aranciata che Mandingo stringe in una mano lunga, affilata che si trasforma in un ventaglio quando illustra gli anni di contratto con la Juventus: cinque.
Incominciamo dal cognome, nel senso di pronuncia. I francesi, si sa, mettono l’accento su qualunque cosa, dal baba (dolce ungherese) divenuto babà, a Flavio Roma, portiere del Monaco, ridetto Flaviò Romà, per non dire di Platinì e Genghinì, di Bravò e FostoCoppì. Ma Patrick, detto Pat, Vieira corregge: «Il mio cognome si pronuncia Vieira, senza accento sull’ultima vocale e scandendo bene le due I». Voilà, tanto per rimettere le cose in ordine sotto la torre Eiffel.
Patrick Vieira è uno che fa correre il cervello ma pesa le parole, non scruta altrove, ti guarda negli occhi per capire ed essere capito, non sfugge, parla di sua madre «Rose», arrotando la erre, e del fratello «Nicko» i quali vivono a Parigi, insieme con altri parenti e affini: «Ho ancora due o tre amici della mia infanzia senegalese, mi seguono da sempre, così fecero quando andai a Milano, così continuarono a Londra e oggi sono qui quando gioco con la Juventus».
Milan, l’Italia, la Juve, quasi dieci anni dopo. Cambiato il Paese, cambiato Vieira, cambiata la squadra di arrivo.
«Sì, sono cambiate tante cose. L’esperienza di Milano fu per me determinante, servì a farmi conoscere l’altra faccia del mio mestiere, quella della panchina, quella di chi deve mettersi da parte perchè davanti a te ci sono grandi calciatori ma c’è anche un grande club, qualunque cosa io chiedessi avevo sempre qualcuno pronto a rispondere, questo era il Milan, la scoperta per me che venivo da Cannes. Poi a Londra ho avuto la fortuna di giocare tra tanti francesi, con un allenatore francese, in una grande città, in un club storico».
Poi la Juventus ha anticipato il Real Madrid.
«No, c’erano opportunità per chiudere con gli spagnoli ma ho messo sul tavolo il mio futuro e ho scelto io. La Juventus rappresenta da sempre un club serio, solido, con un progetto chiaro, una squadra competitiva, che punta al campionato e ai traguardi internazionali. Mi trovo nella parte conclusiva della mia carriera non in quella di avvio e ho dovuto tenere conto di ogni dettaglio, la mia famiglia, il mio benessere, la qualità della vita. E l’Italia offre moltissime cose».
Che l’Inghilterra non offriva più.
«L’Inghilterra è un paese bellissimo, il football è vissuto con grande passione ma controllata. Tatticamente in quel calcio si gioca con maggiore liberta, c’è più spazio per la fantasia. È impossibile un paragone con il campionato italiano».
Che cosa è il campionato italiano?
«Difficile».
Lo sapevamo già, spieghi le difficoltà.
«Quando ti avvicini all’area di rigore avversaria gli spazi sono sempre più ristretti, questa è la prima, grande differenza con il calcio inglese. Poi c’è la pressione, continua, quotidiana, dei tifosi, della stampa e in campo ci sono troppi pensieri, si fa lavorare la testa in modo forse ossessivo. In Inghilterra c’è più estro, in Francia anche, la passione grande appartiene forse a Marsiglia. Lo stesso accade invece in Africa, dove l’amore, il tifo per il calcio sono folli come in Italia».
Le manca l’Africa?
«La cerco, mi mancano i suoi valori, il rispetto delle piccole cose che per questo diventano grandi, l’educazione. Mi manca la cucina. Cheryl sta imparando, lentamente».
Chi è Cheryl?
«È mia moglie. L’ho conosciuta a Londra. È di Trinidad e Tobago, la sua cultura è diversa».
E allora con i fuochi?
«Pesce e riso, carne e riso, ma all’africana, alla senegalese, se non sapete non potete capire».
A proposito di fuochi e di spezie. Lei si è fatto una bella immagine di calciatore falloso e perfido.
«Negativo. Non ho mai fatto male a nessuno. Se controllate i cartellini rossi vedrete che ho ragione. Ma vi dico anche che dormo ugualmente tranquillo ogni notte».
Che cosa sa dell’Inter?
«Nulla, poco. So che potenzialmente è una buona squadra».
Non conosce nessuno degli interisti?
«No, personalmente nessuno. Ho giocato contro Veron quando era a Manchester».
Nemmeno Mihajlovic? (sputi e lazzi in Lazio-Arsenal, ndr)
Non risponde, guarda da un’altra parte, roba passata agli archivi.
La Juventus ha dato gloria ad altri francesi.
«È una delle ragioni che mi ha portato a preferirla. Ho pensato a Platini che è stato fenomenale e anche a Zidane e Deschamps e ancora a Lilian (Thuram) al quale sono molto legato».
Ha già pensato che cosa farà tra cinque anni?
«Spero di avere qualche figlio e spero di saper vivere la mia vita».
Cioè?
«Faccio un mestiere che mi permette di girare il mondo, con tutti i soldi che ho guadagnato, che i calciatori guadagnano, alla fine della carriera si ha la possibilità di scegliere il futuro. Questa è la chiave: il piacere di poter scegliere».
I soldi, daccordo ma anche l’intelligenza di saperli usare.
«D’accordo, l’intelligenza di chi hai vicino, della cultura nella quale sei cresciuto. La libertà non c’entra. La libertà è un sostantivo comodo, ne ho abbastanza. Piuttosto la libertà di scegliere è un privilegio».
Magari su un’isola lontana, lei, Cheryl, les enfants e qualche pesce con il riso alla senegalese.
«No, su un’isola dopo una o due settimane mi annoierei, ho bisogno di vivere la vita, l’ho detto, insieme con gli altri per sapere, capire, migliorare. Sono fiero di quello che ho fatto finora ma fiero anche di poter continuare a farlo».


La pagnotta si sta sgonfiando, il salame ha un profumo poco africano ma la fame è brutta e Patrick Vieira, senza accento sulla a, morde e saluta.

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