Controcultura

In Namibia, dove lo zoo siamo noi esseri umani

Molti turisti sono adepti di nuove religioni: la fotolatria, la zoolatria, la naturolatria...

In Namibia, dove lo zoo siamo noi esseri umani

da Windhoek (Namibia)

Arriva o non arriva? È l'ora del tramonto, nel Parco nazionale Etosha, in Namibia, Africa australe. Il sole sparisce alle 18.40, ma la leonessa si fa desiderare per quattro ore. Su una gradinata, centinaia di persone tacciono ieratiche davanti agli animali che sfilano per dissetarsi: elefanti, antilopi springbok, gazzelle, zebre, orici, kudu, bufali, facoceri. Otto spettatori su dieci scattano foto a raffica, sembra il tappeto rosso del festival di Cannes. Sono gli adepti di nuove religioni: la fotolatria, la zoolatria, la naturolatria. Se un tempo gli animali venivano deportati nei circhi o negli zoo, o semplicemente abbattuti a fucilate, oggi dalla tribunetta li spia un plotone di esecuzione fatto di teleobiettivi e di qualche raro e vituperato flash.

Viene imposto il silenzio assoluto, neanche fossimo sulla collina delle apparizioni di Medjugorje. Un anziano signore tedesco piange, con la sua lei che gli batte sulla schiena come se dovesse far ripartire un orologio rotto. Mi sembra di stare in una di quelle vignette di Gary Larson dove gli elementi etologici sono tutti invertiti.

Fotografo, dunque esisto. L'uomo bianco cerca di riconquistare lo stato di natura a suon di Nikon complicate e costose come astronavi. Gli spalti sono a un paio di centinaia di metri dal lodge dentro il Parco nazionale Etosha. Un bungalow costa minimo trecento euro a notte. Gli amanti della vita scomoda invece piazzano le tende come i boy scout. Nella notte un paio di sciacalli ci gireranno intorno e pisceranno equamente su tutte.

La Namibia è una delle frontiere turistiche più ambite dagli europei. Noi italiani siamo migliaia, e siamo tra quelli che più la visitano al mondo. I viaggiatori transitano per la capitale, Windhoek, evitando quartieri come Katutura, dove decine di migliaia di neri tirano a campare in schifose baracche. Si stupiscono perché in poco spazio convivono l'insegna cubitale di un Islamic Center e quella altrettanto cubitale di un Virgin fitness megacenter. Dormono una notte in un albergo cinto da filo spinato elettrificato, e poi via per migliaia di chilometri di sterrati, verso il deserto del Kalahari e quello del Namib, la Costa degli scheletri e le puzzolenti colonie di otarie di Cape Cross.

Ho incontrato avvocati di Padova, funzionari del Parlamento e della Pubblica amministrazione, stilisti, neolaureati in Scienze naturali, pensionati benestanti, insegnanti e direttori d'azienda. Un'intera classe dirigente nostrana va a dimenticare se stessa fra albe cremisi e tramonti vermigli, polveri scarlatte, panorami extraterrestri.

La Namibia è grande come tre volte l'Italia, ma ha solo due milioni e mezzo di abitanti, una delle concentrazioni umane più basse al mondo. Se poi si considera che 400mila sono nella capitale Windhoek e gli altri in gran parte in alcuni centri della costa atlantica o a nord, verso l'Angola, si capisce quanto si possa stare lungi dagli umani e prossimi agli animali. Un cartello all'entrata del Parco nazionale Etosha dice: «Rinoceronti ed elefanti non sono solo icone di vita selvaggia, ma pilastri della nostra economia». Un avvertimento ai collezionisti di zanne e teste impagliate. Facile però ricollegarlo a un'altra grossa insegna che si vede in giro e che dice «Rompi la catena della corruzione».

Il leopardo è il pezzo forte della collezione zoologica. Peccato che non si veda quasi mai. Le uniche macchie di leopardo in cui ci si imbatte, sono quelle del tessuto sociale di un paese dove i colonialisti non parlano più tedesco, ma cinese.

Razzismo? Apartheid di fatto? I bianchi costruiscono palazzi in stile fiammingo o bavarese. Un giovanotto rubicondo, Patrick DeBeer, discende da quella stirpe di tedeschi (e di boeri già transitati dal Sudafrica) che qui si fecero spazio a partire dalla fine dell'Ottocento. Parla in afrikaan, lingua che assomiglia all'olandese, e ovviamente in inglese (che è curiosamente la lingua ufficiale della nazione). Abita a Swakopmund, 30-40mila abitanti, costa atlantica e guida meglio di un rallista finlandese, su per queste dune che hanno la consistenza della neve fresca. In cima mi fa vedere un gruppo di ricchi cinesi in posa per l'ennesimo selfie.

«Quelli tra un po' si comprano tutto», mi fa, guardandoli con repulsione. In effetti, a colpi di accordi commerciali (importantissimo quello del 2018 negoziato tra i due rispettivi presidenti Hage Geingob e Xi Jinping) gli asiatici tendono le zampe verso i punti strategici della geografia anche militare della regione: per esempio Walvis Bay, la «Baia delle balene», trenta chilometri da qui, da cui hanno già cominciato a esportare litio, un metallo raro, cruciale.

Gli autisti delle dune campano bene portando a spasso i turisti, e le 6 agenzie che c'erano fino a tre-quattro anni fa, oggi sono diventate 35.

«Avete visitato gli Himba? I negri che si mettono il fango in testa e non hanno un buon odore?», chiede il nostro autista. Ovviamente sì. Vivono nella zona del fiume Kunene, quindi al confine con l'Angola, e già fecero parte della tribù Herero, decimata dai tedeschi ai primi del Novecento. Ad accompagnarci in un villaggio nel bush, terreno pietroso pieno di spine e rare acacie contro il sole a picco, ci pensa Remu, un giovanotto che intercetta i gruppi di stranieri e spiega loro come possono rendersi utili per dare una mano alla sua gente. Il denaro è bene accetto. Remu è sostanzialmente un politico: istruito e, per quanto abbigliato in costume tradizionale, sa benissimo come trattare con i bianchi in sahariana d'ordinanza. Nel villaggio è visto come un leader. Il villaggio sono quattro capanne in croce dove le donne si presentano impastate da capo a piedi di ocra rossa e a seno nudo, cadente; cariche di bambini. Un tipo con una pala sembra si stia scavando la fossa, invece sta portando alla luce una vena d'acqua fangosa.

Lì ci manca poco che mi fidanzi con Uejaa Tjiumbua, sedici anni, figlia del capovillaggio. Dopo avermi mostrato i suoi impeccabili quaderni di scuola, avermi spiegato che si veste all'europea perché preferisce «fare il bagno» ed essersi convinta della mia solidità finanziaria, chiede al padre il permesso di sposarmi. Ma lui ride amaro.

La signora inglese proprietaria del fascinoso Kunene River Lodge, sul fiume omonimo davanti alle cascate di Epupa, è una vera «no bullshit woman». Fa lavorare ragazzi che nella loro vita non sono mai stati in nessun altro posto. Gela con una battuta un signore che le chiede come evitare i coccodrilli: «Temo che saranno loro a evitare voi». In effetti i coccodrilli stanno sull'altra riva, timidi, ma ovviamente fotografatissimi.

Archiviati anche quelli, le 4x4 s'inoltrano fra le sabbie. Fanno rifornimento in posti di frontiera come Opuwo, una cittadina surreale di mendicanti bambini e donne Himba, seminude e incrostate dei loro unguenti, che spingono il carrello del supermercato.

Meglio lasciarsi l'uomo alle spalle. In vista del picco dello Spitzkoppe, che ha settecento milioni di anni, il suolo è arancione per gli ossidi di ferro, brilla per i frammenti di mica, biancheggia di quarzo sotto la luna. Il vento accarezza la roccia come le corde di un'arpa.

Adesso non c'è bisogno di chef stellati né di alberghi a cinque stelle, bastano una tenda e una scatola di fagioli, le stelle del Sud sono tutte qui, e saranno almeno un miliardo.

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