Cultura e Spettacoli

Nel «Matrimonio» Muti guida con stile i giovani della Cherubini

Piacenza Tulipano, onesto produttore salumi desideroso nobilitarsi, tenta sposare figlio Giorgino con contessa; contadina amante di Giorgino sostituiscesi furtiva; per recupero Tulipano sposa lui contessa. Telegraficamente, la storia del Matrimonio inaspettato è tutta qui. Nuova? No. Eccitante? Nemmeno. Vi interessa? Piano, prima di rispondere no. C'è il pubblico che a Salisburgo qualche mese fa, al Teatro Comunale di Piacenza adesso, arriva quieto e magari diffidente, poi si entusiasma. Vorrà dire qualcosa.
Che cosa? Non basta il fatto che sia musica gradevole, e teatro che scorre fra sicure sponde. Certo, l'abate Pietro Chiari la sa lunga, con quella scrittura per bene sulla vita rustica, in cui infila doppi sensi con l'aria di non averli mai pensati, come accadeva in quel Settecento licenzioso e non volgare: e Giovanni Paisiello, autore della musica, questa volta si avvoltola un po’ meno nella tonalità di partenza d'ogni aria, e non osa quei lunghi concertati da cui gli capita talora di non venir più fuori; anzi, nella seconda parte, che è più bella della prima per ritmo e melodie, si mette a fare con sapienza la parodia dell'opera barocca e quasi anche di quella che verrà, tanto che Mozart sembra lì a un passo a rider di se stesso.
E certo c'è il Gran Capo carismatico, Riccardo Muti, sul podio a dare il piglio, l'equilibrio, le tinte, la fantasia che occorrono, e c'è quella compagnia di cantanti giovani che non sembrano gran che ma eseguono con precisa dedizione, Alessia Nadin. Marie-Claude Chappuis, Mario Gassi, e l'esperto e cordiale Nicola Alaimo. C'è uno spettacolo che fa poco ridere, e non inventa molto, di Andrea De Rosa, ma si lascia guardare con serenità, nella scena bella e affettuosa di Sergio Tramonti con i costumi di Alessandro Lai. C'è anche la nuova generazione della giovanile orchestra Cherubini, in buca, e con che freschezza, che scioltezza, che determinazione.
C'è però soprattutto un'altra cosa. C'è il respiro, la luce d'una civiltà che trova nella sua verità natia la forza libera, l'allegra fede in se stessa per essere di tutti. È il 1776, Paisiello, Cimarosa, Sarti e altri ancora giravan per l'Europa o si fermavano stabili per anni nelle corti, con le loro opere serie e buffe. A San Pietroburgo come in questo caso, Vienna, Parigi, erano accolti autori e compagnie italiane come maestri d'arte e di buon vivere. Sotto l'allegra spregiudicatezza di caricatura per la società borghese che stava affiorando, ne ritraevano il momento storico; ne denudavano ambizioni e malinconie. Mai il riscatto della donna, non per sporadiche ed eroiche virtù, ma per la sua intelligenza quotidiana, per il suo fascino non esibito e irresistibile, per la sua tenacia sorridente e capace di grandezza, ebbe tanto lungimirante celebrazione.

Scherza scherza sulla finzione di quel teatro buffo, ci si trova all'improvviso con il dubbio inconfessato se non sia tanto più vero del nostro quel mondo lì.

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