Cultura e Spettacoli

Nello zibaldone di Adrián Bravi un romanzo in grande spolvero

In «La pelusa» l’ossessione del protagonista per la pulizia è la chiave di lettura di un libro dalle atmosfere borgesiane

Ci sei, e comunque tu pensi di farcela, ci ritornerai. Nel motto della Genesi «Pulvis es et in pulverem reverteris», suona una nota di cinismo beffardo quando a pronunciarlo è un argentino che parla (e scrive) in italiano e, sullo skyline della leopardiana Recanati, con l’incontro fra un tetro bibliotecario marchigiano e un misterioso lettore borgesiano, scatena un polverone di evocazioni, stuzzica lo humour e agita le idee. La polvere - o, più sottilmente La pelusa fine fine che, impalpabile, impercettibile, inestirpabile, riveste la buccia delle pesche, avvolge l’umana epidermide, rifodera i piani dei mobili e, oscenamente vistosa, fa mostra di sé nero su bianco nel titolo in copertina al libro di Adrián Bravi (Nottetempo, pagg. 144, euro 12) - è principio, fine e invadente, onnipervasivo elemento di questo sconcertante romanzo.
Perseguita come un’ossessione il protagonista: il buon Anselmo Del Vescovo. Il nostro eroe è un uomo pulito. Onesto dipendente della Biblioteca Civica di Catinari (facile anagramma del paesello da cui il poeta gobbo spiava L’infinito: che gli apparisse sotto forma di corpuscoli e pulviscoli svolazzanti oltre la siepe?). Insospettabile consorte d’una Elena macerata nella solitudine e nei fumi della vodka. E, come tutti gli eroi, cavaliere senza macchia partito lancia in resta contro le proprie paure. È un paladino della pulizia, impegnato a combattere la sua silenziosa nemica: tra le pagine e i filari di mensole nelle ore di lavoro, tra le pareti di casa in quelle mai libere da domestiche faccende. La sua è una guerra incruenta. Ma è una lotta per la vita: minata nel fondo - e minacciata fin dalla sua genesi, vuole il biblico promemoria - dal «Nulla eterno» che non cessa di intaccarla.
«Nulla al mondo è così grande ed encomiabile che non possa diventare polvere», annota Anselmo in una mail che, spedita a un indirizzo sconosciuto, gli torna sempre indietro (ma che potrebbe esser ripresa dagli appunti segreti dello Zibaldone). «Invecchia la carta, invecchia il cuoio, invecchia tutto, persino gli argomenti invecchiano»: che, detto tra sé e sé da uno che passa metà della vita fra tomi schedari e scaffali di libreria, scoraggia ogni argomentazione contraria e ogni timido tentativo di reazione. Non fosse che «La prassi vuole che tutto venga affastellato sotto l’apparenza di un qualche ordine», invita a pensare la stravagante figuretta che appare un giorno sulla soglia della sala di lettura: giusto il tempo di mettere al bibliotecario assillato dagli acari un’ennesima pulce nell’orecchio.
Ma - sorpresa! - il lettore straniero si chiama Adrián Bravi. Il suo nome è lo stesso dell’autore, che di Borges è concittadino e che, in Italia da un ventennio (vive e scrive a Recanati), come il poeta armato di penna, si diverte a fare e disfare tassonomie e a dar fuoco alle polveri della fantasia (da ricordare il precedente Restituiscimi il cappotto, Fernandel 2004 che, con l’imprimatur di Paolo Nori, segnò il suo debutto letterario italiano dopo gli esordi narrativi in Argentina con Río Sauce). Il suo intervento nella storia di Anselmo è decisivo. Servirà a sistemare il tipo, agitatissimo come un pelucco nel vento, al posto che gli spetta.

Ad adagiarlo nella morbida coltre con cui su tutto, su ogni fine - anche di romanzo - stende il suo velo La pelusa.

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