Nemici per magia

La persecuzione delle streghe e l’ostracismo ai filosofi nel saggio di Esther Cohen

Stregoneria e magia sono antiche quanto l’uomo. Il primordiale termine greco maghèia, che indicava il complesso delle operazioni incantatorie, già rimandava a millenarie sapienze sacerdotali d’oriente, magi persiani, astrologi babilonesi, veggenti caldei. Sullo sfondo, l’enigmatico magnetismo del cosmo egizio.
Fattucchiere e negromanti (specialisti dell’aldilà, che possedevano la mantèia dei nekròi, la divinazione del futuro su passaparola dei defunti) popolano le fantasie mitiche elleniche. Orfeo consegnava agli adepti mappe rassicuranti del mondo ìnfero. Circe e la nipote, Medea, oriunda dell’esotica Tessaglia (tèssala era anche Erittò, la maga che secondo il poeta latino Lucano con infusi a base di spuma di luna svegliava cadaveri e ne strappava i segreti) erano maestre dell’intruglio e della bacchetta, fate ambigue che, al tocco, cambiavano gli uomini in bestie.
Una radicale doppiezza ha da sempre infestato la magia, nera e bianca, malefico sortilegio, ma anche attributo divino: Ermes, di insospettabile celestialità olimpica, maneggiava l’erba moly, salvifico antidoto alle basse manovre delle incantatrici. Drammaticamente doppio era il pharmakòs, su cui la comunità scaricava il mìasma, la bruttura contaminante, esorcizzata con il sacrificio violento della vittima, l’individuo ora più sgraziato del gruppo sociale, ma talvolta il più splendido, il più conturbante e desiderabile, come la vedova che nel romanzo di Nikos Kazantzakis (nella trasposizione cinematografica, Zorba il greco, di Cacoyannis, veste l’incanto arcaico di Irene Papas) cade sotto il coltello collettivo dei maschi del villaggio, oggetto misto di desiderio e repulsione. La sua colpa e la sua grazia? Aver violato la chiusa purezza del clan con il contatto rischioso, la carezza all’intruso, il forestiero inglese.
Anche nel mondo romano la magia appare sdoppiata. L’aureola nobilitante dell’eredità etrusca sdogana gli aruspici e gli aùguri, figure istituzionali ai vertici della diplomazia e della politica. Ma brulica anche una stregoneria bassa e popolana, malocchi di praticoni, tabellae defixionis (elenchi di giaculatorie cattive per impestare, uccidere, soggiogare), che da una parte suscitavano il riso dei colti, come vanesi frutti della superstizione irrazionale, dall’altra allarmavano i giuristi, che nelle austere Dodici Tavole le circostanziarono e bollarono. Nasce dal greco (via latino) anche il nome della figura tipica, la strega, segno di seduzione e di orrore, con il marchio della strix, il gufo di tenebra che nelle sillabe cela i suoni vetrosi delle formule maligne.
E la doppiezza è la chiave di volta del libro di Esther Cohen, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento, pagine che s’impossessano del dettato di Walter Benjamin, secondo cui non esiste documento di cultura che non sia insieme documento di barbarie, perché quando la ragione si fa machiavello di potere, è fatale che travalichi in oppressione, in cancellazione scientifica dell’altro, del diverso, dell’outsider, in un’angoscia di normalità che assomiglia alla quiete dei cimiteri. Le streghe sono gli stracci del Rinascimento, la spazzatura che vola in aria tra gli splendori dei monumenti e dei dipinti, quando il Malleus Maleficarum (lo spietato Martello delle streghe, 1486, manuale dell’eccidio con il fuoco) si abbatte sulle migliaia di donne che in terra cattolica (ma ancor di più in area protestante) gli inquisitori riconoscono, codici alla mano, in commercio con Satana, sessuofobe icone di carnalità cupida, gratuita, non votata alla procreazione di rito, spettri di bui desideri che, fondamentalmente, si annidano nella psiche malandata dei persecutori.
L’altro lato della medaglia magica sono i filosofi, Ficino, Pico della Mirandola, Agrippa, santoni eredi della teurgia neoplatonica (decifrare i nomi divini dà il controllo dell’estrema potenza) e della cabala ebraica: più rispettabili, ma anch’essi border line, a un passo dal rogo.

La Cohen fa il contropelo alla storia: la sua analisi dei fatti è la memoria che risarcisce tardivamente i reietti, quel ricordare che non è soltanto il contrario di dimenticare, ma la giustizia di un presente e di un futuro più umani.

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