Cultura e Spettacoli

"Noi tutti schei e antipatia? Sempre meglio che mona"

Gian Mario Villalta, autore di un saggio controtendenza, ci racconta i luoghi comuni che perseguitano un pezzo (ricco e arrabbiato) del Paese

"Noi tutti schei e antipatia? 
Sempre meglio che mona"

Iniziamo oggi con questa lunga intervista a Gian Mario Villalta, autore del saggio Padroni a casa nostra, una serie di pagine dedicate alla questione Nordest, ossia alla particolare condizione di un pezzo d’Italia, che potremmo far coincidere con il Triveneto, che è tra i più ricchi del Paese ma che si sente marginalizzato dai media e dall’informazione. Un pezzo d’Italia che nella vulgata si dedica solamente alla produzione di denaro e alla rincorsa del benessere. Scopriremo a partire dalle parole di Villalta che la realtà è molto più complessa. Domani la seconda puntata con nuovi interventi

C’è uno scrittore del Nordest che non crede affatto di vivere «in una landa disertata dalla civiltà e dalla cultura, l’orribile Veneto e lo squallido Friuli popolati da avidi padroncini che la domenica mattina (di sabato lavorano) si organizzano per la caccia notturna all’extracomunitario», che s’è stufato di sentir definire lui e i suoi conterranei come dei «tristi umanoidi dominati dall’avarizia e dalla xenofobia, dall’ottusità mentale e dal lamento egoistico insopportabile», in una parola antipatici, di un’antipatia «che trasuda finanche dalle loro lagnose parlate». E si difende, esasperato, così: «Siamo antipatici? Va bene, d’accordo. Sempre meglio antipatici che mona!». Con tutto il rispetto per la Razza de mona di Toni Cibotto, edito 15 anni fa dalla vicentina Neri Pozza.
Vedi i cartelli gialli affissi sulle vetrine degli uffici di Pordenonelegge che strillano «Questo non è l’ufficio carburanti», col «non» sottolineato due volte, e subito ti viene da pensare che la maggioranza degli italiani non abbia poi tutti i torti: ecco qua la controprova che quelli del Nordest badano solo ai soldi, agli sghei, come scrivono i maestrini alla Curzio Maltese su Repubblica, così poco addentro ai costumi locali da ignorare la corretta grafia, schei, abbreviazione degli austroungarici scheidemünze, gli spiccioli in uso nel Lombardo-Veneto. Gian Mario Villalta, che del meeting letterario giunto alla decima edizione è l’ideatore, se la ride: «Siccome siamo sponsorizzati dalla Camera di commercio, la gente sbaglia porta e viene qui a cercare le tessere per gli sconti su benzina e gasolio previsti dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. A proposito, si dice Friùli, non Frìuli».
Villalta è nato a Visinale di Pordenone nel 1959. Prima d’indossare l’armatura di paladino del Triveneto aveva scritto libri di poesia nel suo dialetto («un venetaccio, anzi no, un veneto rustico») ma anche in italiano, curato Le poesie e prose scelte di Andrea Zanzotto per I Meridiani Mondadori, pubblicato col medesimo editore i romanzi Tuo figlio e Vita della mia vita. Adesso, sempre per Mondadori, ha mandato in libreria Padroni a casa nostra (147 pagine, 16,50 euro), il leone di San Marco sulla copertina e un sottotitolo, Perché a Nordest siamo tutti antipatici, che ha il pregio d’entrare subito in argomento. Dentro ci ha messo folgoranti immagini, come quella dei contadini che la domenica si trasformano in operai per costruirsi la casetta in economia: «C’è un parente che sa di muratura, e gli altri fanno la malta e portano i mattoni. Sono le villette “geometrili”, dette anche di “architettura spontanea”, dove ci si fa una seconda cucina nello scantinato, e si finisce per viverci, mentre al piano superiore la “cucina componibile” attende deserta e il salotto nuovo resta avvolto nel cellofan». Bisogna credergli, perché Villalta è figlio della proprietà commutativa: un padre muratore che nei ritagli di tempo faceva l’agricoltore.
Da un poeta non bisognava aspettarsi un pamphlet. Infatti Padroni a casa nostra è costellato di accenti lirici che fanno palpitare, anche nelle pagine più aspre, l’anima vera della sua gente: «Mentre aspetto il caffè, accade questo: di fronte a un ragazzino (ancora un bambino, a parte l’atteggiamento) che ordina un doppio gin alle otto meno un quarto di mattina, il gestore del bar rimane immobile, senza dire niente, per almeno un minuto. Poi sembra quasi che si metta a piangere. Ricomposto, gli dice gentilmente, ma con una severità sincera che fa arrossire anche me, di andare a scuola, che si fa tardi, augurandogli una buona giornata, come se non avesse mai sentito quello che gli aveva chiesto».
Il libro è nato da uno shock. Villalta, che nella sua città insegna materie letterarie al liceo scientifico Ettore Maiorana, voleva invitare a Pordenonelegge «un intellettuale romano», suo amico da lunga pezza. «Gli ho telefonato. Mi ha risposto che non era molto contento di venire dalle mie parti. Poi s’è pentito: “No, scusa, non mi sono spiegato, verrei volentieri per te, è una bella cosa quella che fate, ma c’è un’aria lì da voi che non mi piace. Siete... siete...”. Antipatici?, ho suggerito io. “Sì... no... insomma sì: siete antipatici”».
Possiamo saperne di più su questo M. che ci dà degli antipatici? «Intellettuale» suona generico.
«È un critico letterario e un elzevirista, il nome non mi va di farlo. La mia prima reazione è stata quella più spontanea: e allora guardatevi voi! Ma poi ho capito che la contrapposizione non porta da nessuna parte. E mi sono detto: devo scriverne, raccontarla dal nostro punto di vista».
Magari il critico romano engagé era arrabbiato solo perché da queste parti votano in larga maggioranza per il centrodestra.
«Sì, c’entra anche la politica. Tuttavia il cliché soldi uguale ignoranza resiste da troppo tempo. Certo, lo vedo anch’io che la velocità e la violenza dei cambiamenti sociali avvenuti fra gli anni Sessanta e Ottanta hanno creato qualche disturbo collaterale. Ma, solo per fermarci ai libri, si dà il caso che oggi il Nordest sia il terzo polo di lettura, e per di più in crescita, dopo le aree Lombardia-Piemonte e Roma-Napoli. Sorprendente, no?».
Però lei denuncia il «complesso dell’impostore» che avvelena la vita di chi ha fatto i soldi senza mai leggere un libro.
«Non sono più i tempi di Bruno Casagrande, il self-made man fondatore dell’azienda che contribuì a mettere in sicurezza il reattore di Chernobyl e fornì i macchinari per scavare nel cratere di Ground zero, il quale dietro la scrivania teneva una massima in rilievo: “L’ingegno umano partorì cose stupende quando aveva fra le mani meno libri e più faccende”. I Benetton, i Rosso, i Buziol, i Cimolai hanno capito che senza la cultura e senza la comunicazione oggi nessuna industria può stare sul mercato».
Vuol farmi credere che non vede alcun difetto nei veneti?
«Ne hanno, chiaro. Quello di fondo me lo segnalò per primo un mio vicino di casa, oggi ottantenne, nato e cresciuto in Campania, vicino ad Amalfi, trasferito a Pordenone per incarichi di comando nell’esercito, che mi tendeva veri e propri agguati sulle scale per fare conversazione. Io aprivo piano la cassetta della posta per evitarlo. Poi finalmente un giorno riuscì a intercettarmi e si sfogò: da quando era venuto a vivere in Friuli, gli mancava l’umanità, usò proprio questa parola. “La vita ha già un sacco di noie sue. Se non stai un poco a pazziare, cosa succede?”, concluse. È vero: siamo misurati, compassati, refrattari all’empatia, crediamo di saperla lunga prim’ancora d’aver ascoltato che cos’hanno da dirci gli altri. Ma è solo una forma di difesa iniziale, perché poi negli stessi individui prevale l’apertura alla mondialità, al volontariato, al solidarismo».
Pregi?
«La costanza, l’impegno, l’inventiva, lo spirito di adattamento, la consapevolezza del valore delle proprie capacità, un forte senso di libertà individuale e d’indipendenza. Questa era la regione del “comandi” goldoniano. C’è stata una rivoluzione silenziosa che ha cancellato ogni forma di sudditanza. Ora siamo la terra del “non mi comanda più nessuno, posso andare dove voglio”».
La terra del «padroni a casa nostra», appunto. Perché ha scelto uno slogan leghista come titolo del suo libro?
«Per provocare. Non ci identificano così? C’è del serio e c’è della caricatura, in questa frase. Ma io capisco che cosa significa e perché viene detta».
Ha mai provato a confrontarsi sul tema con un Luca Zaia o un Flavio Tosi?
«Sì, e anche qui non mi piace fare nomi. I partiti sono meno rigidi all’interno di quanto non appaiano all’esterno. Mettiamola così: ci sono leader leghisti che predicano male ma razzolano bene. La politica ha bisogno di far leva su sentimenti rozzi per raccogliere consenso. Ma poi il potere che nasce dal consenso viene usato tutto sommato saggiamente, a livello locale».
Non crede che i veneti appaiano antipatici anche per la loro ostilità all’immigrazione incontrollata?
«Nel Nordest l’immigrazione è un problema reale e forte, ovvio che venga avvertito più che in altre aree d’Italia. Eppure i nostri detrattori lo scambiano per un atteggiamento mentale. Quando una maestra si trova con una classe di 20 alunni in cui 14 parlano tutte le lingue del mondo, tranne l’italiano, che cosa deve fare, poveretta? Quest’insegnante ha un problema reale e forte, ripeto. E le danno pure dell’intollerante. Roma e Milano sono sempre state cosmopolite. Ma qui è avvenuto tutto nel giro di dieci anni. Prima eravamo noi gli emigranti. All’improvviso le parti si sono invertite. Un numero elevato di arrivi in tempi così brevi avrebbe messo in difficoltà chiunque. Logico che una persona in difficoltà diventi antipatica, cominci a scalciare».
Nel 1975 il suo conterraneo Pier Paolo Pasolini intravide nella scomparsa delle lucciole una cesura nella storia del nostro Paese, lo spartiacque tra un prima e un dopo. Lei sostiene che semmai la vera notizia è la scomparsa del buio.
«Oggi non possiamo più pensarla come Pasolini. L’appello al mondo arcaico in alternativa al mondo industriale non ha senso. Inutile arroccarsi nel rifiuto della modernità, al massimo possiamo bonificare le nostre tecnologie. La civiltà contadina è finita. Se qualcuno conoscesse davvero un agricoltore, invece di parlarne sempre a vanvera, vedrebbe che vive e lavora come un qualsiasi altro imprenditore. Stessi tempi, stessa ideologia. Solo che produce grano e latte invece di mobili e scarpe».
Perché il Nordest fa notizia solo per Maso, per Ludwig, per il razzismo e non per le sue mille eccellenze?
«Mancano le lobby editoriali e giornalistiche che ci diano voce. L’oscuramento mediatico è una colorazione non secondaria del nostro risentimento. Veneti e friulani hanno la percezione di esistere poco e male o di non esistere affatto nella realtà italiana. È una carenza sistemica. Lo posso ben testimoniare io, che per comunicare qualcosa al di fuori della regione devo sudare le proverbiali sette camicie. Com’è possibile che la locomotiva industriale d’Italia non esprima un giornale, una casa editrice, una rete televisiva che abbiano rilevanza nazionale? Non veniamo presi in considerazione neppure per una fiction».
Non ci conoscono proprio.
«Le attrazioni turistiche del Nordest sono Venezia, Cortina, Verona col balcone di Giulietta e Gardaland, cioè un “non modo” di conoscere il Triveneto. Ricorderà la battuta: “Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo”. Ebbene, un terzo dei maschi italiani ha vissuto la naia nelle caserme del Friuli Venezia Giulia, ma non c’è stato nemmeno un Totò che abbia trasformato uno di questi posti nella sua Cuneo. Da trent’anni, girando per l’Italia, sento collocare Udine in Veneto e Pordenone in Trentino. Quando frequentavo l’università a Bologna, a maggio i miei amici mi chiedevano: “C’è ancora tanta neve su da te?”. E io a spiegargli che a Pordenone, col mare a 50 chilometri, il clima è più mite che in Emilia».
Non trova strano che i nordestini, politicamente moderati, siano stati colonizzati da una catena di quotidiani locali che da Trieste a Bolzano, passando per Udine, Venezia, Padova, Treviso, Belluno e Trento, sono in mano al gruppo Espresso-Repubblica?
«Non dovrei dirlo, perché poi magari s’offendono, ma a livello politico questi giornali non contano un cazzo. A parte Il Piccolo di Trieste, forse. La gente di qui guarda al territorio, all’amministrazione locale. E lì destra o sinistra spostano poco».
Lo scrittore Ferdinando Camon le ha ricordato che il Nordest è sempre stato disprezzato: «Prima con l’accusa d’essere povero e derelitto, produttore di servette, contadini, soldati da prima linea, analfabeti, bigotti e democristiani; adesso con l’accusa di essere riccastro, leghista, sfruttatore di clandestini, razzista, bevitore di ombrette e grappini».
«Vero. E ha ragione quando afferma che è preferibile l’antipatia di oggi al compatimento di ieri. Quello che mi sconcerta è l’incapacità anche delle persone colte di vedere il nostro lato buono. I veneti si sono rassegnati all’immagine negativa che i media ci hanno cucito addosso, hanno finito per credere che la vita vera sia altrove. Sentita stamattina da una quattordicenne nei pressi di scuola: “L’unica cosa interessante di Pordenone è che puoi passare col rosso ai semafori”. L’amica: “Almeno una ragione per vivere qui”. Traslocate alla periferia di Milano o di Roma, poi voglio vedere quanto state bene. Ecco, io penso che questa autodenigrazione nasca dall’essere tagliati fuori dal mondo mediatico, dove i ragazzi immaginano che accadano le cose».
Lei chiede in classe: «Perché si sta così male in uno dei luoghi di maggiore ricchezza materiale e di maggiore libertà individuale prodotti fino a oggi dalla storia?». E dopo un lungo silenzio la studentessa Alessandra le risponde: «Professore, noi non abbiamo futuro».
«Il futuro oggi ha una predittività pari a zero. Nell’età in cui i giovani dovrebbero aprirsi al mondo che li circonda, li ammazziamo con la delusione preventiva: sei vuoi, fallo, ma non ne vale la pena. Viviamo nell’epoca del cinismo assoluto. Il cinismo, in senso filosofico, è l’azzeramento di ogni valore che non abbia immediata riscossione. È tramontata qualsiasi prospettiva di redenzione religiosa e sociale. L’unico scopo è affermarsi, avere visibilità, accumulare denaro. Non diverso dallo scopo che perseguono politici, giornalisti e psichiatri che pontificano dal video sui nostri ragazzi. Le parole muovono, ma gli esempi trascinano, scriveva Seneca. E i ragazzi percepiscono con più forza le evidenze che non le parole».
Era meglio quando alla nostra generazione i preti proponevano come futuro la vita eterna?
«Non saprei. Però almeno quella prospettiva permetteva la critica, la ribellione, il rifiuto, la presa di distanza. Ti costringeva a pensare. Oggi un comportamento che dietro ha solo il nulla viene ritenuto normale. È così e basta, si fa e basta. I ragazzi che conosco io vivono nella sospensione e nello stordimento, la loro unica ideologia è l’incasso immediato - di ebbrezza, di informazione virtualizzata, di moda, di sesso - da cercare nell’alcol, negli stimolanti chimici, in Tv, su Internet».
Mi ha stupito il capitolo dove scrive: «Sono stato sempre contrario a qualsiasi tipo di censura. Però, avessi un bambino o un adolescente che ha libero accesso a Internet e sta in casa per ore (o chiuso nella sua cameretta) da solo, be’!, ci penserei. A 12 anni con tanta roba a disposizione penso che sarei impazzito. Prima ancora di diventare cieco».
«Mi sono fatto un giro. Il Web va dal lecito morale all’illecito penale. E lì entri in un’altra dimensione. È malavita, un mondo che per principio non si deve accettare. Un conto è la sessualità, un altro conto è il vizio esibito».
Padroni a casa nostra parla dell’antica vocazione ai «sacrifici», smarrita col sopraggiungere dell’agiatezza. Come possiamo proteggere i ragazzi dai malesseri del benessere?
«Lei manda i suoi figli a pagare le bollette? Sono capaci di fare la spesa da soli? Che c’è di sconveniente se il figlio di un dentista prende gli appuntamenti e il figlio di un pavimentista aiuta il padre a mettere giù le piastrelle? I ragazzi vivono nel mondo B e noi del mondo A, gli chiediamo solo di studiare e di non impasticcarsi. Vogliamo farli entrare nel mondo A sì o no? A me sembra che fra genitori e figli ci sia stato un tacito baratto: noi paghiamo, vi manteniamo fino a 30 anni, e in cambio voi ci lasciate fare la nostra vita senza metterci in discussione. Un giorno s’è presentato ai colloqui con i professori un padre tirato alla moda, capelli lunghi, un incrocio fra Borriello e Corona, e l’unica cosa seria che mi ha raccontato di suo figlio è stata: “Ma guarda che banale ’sto ragazzo! Non vuole neanche mettersi un orecchino. Gli ho detto: fatti almeno un tatuaggio...”. Nel nostro liceo gli studenti si presentavano in classe con bermuda e ciabatte. Gliel’abbiamo impedito. Ma poi escono dalla scuola e trovano ad aspettarli padri vestiti come i calciatori».
Lei attribuisce al tracollo demografico il disseccamento della memoria. I veneti non sanno più chi sono e non lo insegnano ai loro figli.
«È mancata la continuità fra nonni e nipoti. Negli anni Settanta e Ottanta, per paura, o non si sono fatti figli o s’è aspettato troppo a farli. È il periodo che ha coinciso con terrorismo e droga. Sono diventato padre a 47 anni. Alla nascita di mia figlia Vittoria, avevo la stessa età di mio nonno Alfredo quando nacqui io. Stefano Zecchi esalta i piaceri della sua paternità tardiva, ma procreare il primo figlio dopo i 40 porta a confondere, secondo me, la paternità con la nonnità. Stiamoci attenti. La vita è un’avventura. Condividere anche senza sapere tanto, è una parte importante dell’esperienza. I genitori giovani, pur incerti di sé, mettono in moto energie che noi cinquantenni non abbiamo più».
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti