Cultura e Spettacoli

Non bastano le parole a salvare l’italiano

Se ci facciamo caso, la lingua che usiamo ogni giorno per comunicare è come una massa di pasta in lavorazione. Si mescola, si trasforma, ingloba nuovi ingredienti e perde frammenti. Parole nascono e muoiono nell’arco di pochi anni, generate da situazioni particolari e diffuse dalla televisione o dalle pagine dei giornali. Altre passano veloci come il vento, perché appartengono a un gruppo di persone destinato a rinnovarsi con grande rapidità, come i termini del gergo giovanile, incomprensibile a chi è stato giovane solo dieci, quindici anni fa: tutto è cambiato, mode, ritmi, miti televisivi, ecc. Se ci fermiamo a pensare ne scoviamo a decine: dal superatissimo matusa (anni Sessanta), ai gasato, truzzo, strizza, mate, raga dei giovani d’oggi; dal cucador del paninaro di Drive In, anni Ottanta, attraverso gabibbo o besugo (dialetto genovese rivitalizzato da Striscia la notizia), fino alle attuali iperboli aggettivali di galattico, spaziale, anche antifrastiche come bestiale, mostruoso, demenziale. D’altra parte, se pensiamo a come parlavano i nostri nonni, tanto è cambiato nel lessico durante un secolo che ne ha viste di tutti i colori...
Gian Luigi Beccaria, nel recente libro Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi (Garzanti, pagg. 382, euro 15) raccoglie, rielaborati, articoli comparsi su varie testate, in cui delinea, con la consueta eleganza e squisita competenza, un quadro pressoché completo del lessico d’oggi. E ne emerge una panoramica incredibilmente composita, quasi un puzzle con le tessere che cambiano dimensioni o contorni a seconda degli incastri e di chi le maneggia. Parole che derivano da linguaggi settoriali, dalla pubblicità, innanzi tutto, arrivano quotidianamente nelle nostre case attraverso il piccolo schermo, ma anche il calcio, la politica e addirittura i tormentoni delle trasmissioni televisive di successo entrano nel linguaggio d’uso di fasce di persone in genere omogenee per età, grado di istruzione e classe sociale.
Anche il giornalismo ha una parte assolutamente attiva (e prolifica) nella generazione di termini che attraverso i dibattiti televisivi e i talk show, diventano sempre più familiari al punto da non ricordare neppure che ci sarebbe anche un modo più corretto (ed elegante, o semplicemente più italiano) per esprimere lo stesso concetto. Ecco, è sfuggito: ha quasi involontariamente fatto capolino tra le righe il termine talk show, un anglismo che si è prepotentemente scavato un proprio ambito nel lessico della televisione. Ma, d’altra parte, come si potrebbe oggi chiamare una trasmissione con ospiti che discutono su argomenti vari? L’invasione dell’inglese è un altro vezzo che spesso viene deplorato dai puristi della lingua. Ma certo, come osserva Beccaria, ci sono termini che sono nati in inglese, per indicare qualcosa che prima non esisteva. Il pensiero corre subito al gergo dei computer (peraltro spesso italianizzato) o delle finanze: non esistono possibili sostituti a chat, cliccare, masterizzare, come pure a futures, holding, joint-venture, leasing, ma anche ai più diffusi e comunemente utilizzati self-service, sex-shop, take-away, gossip... Inventarli? Sostituirli con traduzioni letterali? Un’operazione che ricorda tanto i tentativi del Ventennio di italianizzare ogni termine straniero in omaggio all’autarchia imperante. E sono nati (ma fortunatamente mai entrati nell’uso comune) mostri come giazzo per jazz, vitaiolo per viveur, tabarrino per tabarin, ponte per bridge (inteso come gioco di carte!).
È antica la diatriba sulla necessità di mantenere pura la lingua e di difenderla dalle contaminazioni straniere. Sono rimaste nell’italiano parole ereditate dall’arabo (fin dall’epoca medievale, e poi negli ultimissimi anni per i recenti fatti politici), dallo spagnolo, ma soprattutto dal francese che attraverso il linguaggio illuminista da una parte, ma anche le naturali infiltrazioni nei dialetti del Nord, ci ha lasciato una profonda eredità (si pensi al lessico teatrale: da foyer, a claque, da pochade a pièce, a matinée). Il mondo è diventato piccolo, quindi è inevitabile che anche le lingue si mescolino e si contaminino in una rivitalizzazione reciproca. Ma a volte il desiderio di novità e di stupire ha portato alla creazione di «frankenstein» linguistici, che occhieggiano in particolare dalle insegne dei negozi: Ghiotton’s club, Croissanterie, My Way Paninoteca, Pan Market.
E la televisione? L’imputata di sempre, il capro espiatorio di ogni male? Il suo impatto sulla lingua d’uso è davvero straordinario. Come nei primi anni della sua esistenza è stata una delle componenti principali della creazione di un italiano comune, oggi dalla tv nascono, si mescolano, si confondono neologismi, ma anche banalità che avviliscono la potenzialità creativa della lingua (ascoltiamo i telegiornali: pullulano di «abbassare la guardia», «si profila una schiarita», «un colpo di spugna» e poi locuzioni come l’«esodo dei vacanzieri», «il popolo della notte», «un tema scottante», «una svolta decisiva»).
Un ultimo pensiero va agli agonizzanti dialetti, destinati a un lento, ma inesorabile spegnimento. La loro traccia comunque si è impressa profondamente nell’italiano. Termini dialettali, spesso di intraducibile espressività, emergono nel parlato, lo arricchiscono semanticamente ed espressivamente e si diffondono ovunque lasciando la propria nicchia municipale (teppista, bruschetta, iettatore, far caciara...). E l’italiano assorbe. In fondo, questa capacità di trasformarsi e di far propri vocaboli di altre aree o di creare neologismi, è la prova dell’approdo della nostra lingua a un livello di vero strumento di comunicazione orale e non più solo ingessata, «intoccabile» lingua della letteratura come è stata per secoli.

Merito anche della televisione? Questa volta non si può certo negarlo.

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