Musica

Non chiediamo scusa se parliamo di Gaber, l'ultimo intellettuale

Fu un artista geniale che mantenne intatta la propria umanità davanti alla storia

Non chiediamo scusa se parliamo di Gaber, l'ultimo intellettuale

Chiedo scusa se parlo di Giorgio Gaber. Ci sono cose più importanti, non dico di no, però è giusto parlare di lui, oggi più di ieri, a vent'anni dalla morte. Lo sta facendo il Centro Culturale di Milano, con una bella rassegna già iniziata, condotta da Paolo dal Bon e Massimo Bernardini, che si concluderà il 22 di marzo. Titolo: Si può. Tra gli ospiti: Gioele Dix, Andrea Mirò, Fausto Bertinotti, Lorenzo Luporini, Santoianni, don Claudio Burgio.

A parlare di che?, dell'«attualità» di Giorgio Gaber? La sola attualità di Giorgio Gaber è questa: che la sua inattualità, la sua radicale, voluta, amata inattualità, da vent'anni ci manca come l'aria. Per questo è importante parlare di lui.

Lo conobbi nell'ultima parte della sua vita. Era stato lui a volermi incontrare perché, recensendo un suo spettacolo (al tempo facevo il critico teatrale), l'avevo definito «l'ultimo grande intellettuale di questo Paese», e questa cosa l'aveva incuriosito. Mi disse di non amare troppo gli intellettuali. Ma ci trovammo d'accordo una volta che gli ebbi spiegato che cos'era per me un intellettuale.

Un intellettuale è prima di tutto un uomo: e questa è la cosa meno scontata che ci sia. È un uomo che, di fronte alla storia, si impone di mantenere intera la propria umanità. Una volta Miles Davis disse di non essere un jazzista, ma un musicista che usava il jazz per realizzare la propria musica. Questa è la differenza, e Giorgio Gaber apparteneva (appartiene) a questa razza.

Lo si capiva fin dagli anni Sessanta, quando era un cantante di successo: le sue canzoni permanevano un fiato oltre l'esibizione, le parole semplici e la musica allegramente dubbiosa trattenevano un pensiero, una differenza. Ed era così fin da quando cantava, quasi festeggiandola, la piccola vita delle osterie di periferia (La ballata del Cerutti, Il Riccardo, Trani a gogò, Barbera e champagne) sulla scia della tradizione milanese della «mala» e, prima ancora, del Porta e del Tessa - tutti figli illegittimi e nipoti bastardi di Alessandro Manzoni.

Si capiva che in lui, come nel suo grande amico Enzo Jannacci, c'era qualcosa in più. L'uomo di cui parlo è questo qualcosa in più, un mistero che mette la testa sopra le brutture della storia, che guarda il deserto senza farne parte; è questo ciò che definisce un intellettuale.

Con l'inizio degli anni Settanta le sue canzoni si tinsero più decisamente di ironia, e con l'ironia di un filo di amarezza: E allora dai, Com'è bella la città e altre come L'orgia dove canta: «Ero lì in un'orgia/ facevo qualche cosa/ però non mi ricordo/ una serata così noiosa». L'orgia è la storia, l'orgia è la politica, orgia sono le illusioni collettive.

Gaber provò una passione infinita per lo stato nascente di quelle illusioni, per la speranza che le faceva esistere e dava loro parole, idee, argomenti. Il '68 fu questo. Forse ci fu anche della malafede, fin dall'inizio, ma la speranza era autentica, autentica la scommessa su una vita più giusta, più felice. E Gaber abbracciò questa speranza, e lo fece senza riserve.

Nacque così (era il 1970) un personaggio, un avatar, il Signor G, che fu protagonista di alcuni memorabili spettacoli: e con il Signor G nacque il Teatro Canzone, un genere che Gaber inventò, uscendo di fatto dalla tv (dove era ben posizionato) per poter stare a contatto fisico con le persone, con i corpi. Per questo la parola «intellettuale» sulle prime non gli piacque: «Gli intellettuali» mi disse «non hanno il fisico, non ci mettono la faccia, non stanno lì, a dieci, a cinque, a tre metri dalla gente».

Gli risposi che un intellettuale era, secondo me, un uomo che aveva come unico padrone il proprio pensiero, la propria responsabilità, il proprio coraggio. Che non consideravo intellettuali tutti quelli che, in un modo o nell'altro, erano a libro paga, che (consapevoli o no) erano al servizio di un qualsiasi potere o progetto di potere. Che gli intellettuali si chiamavano Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, e con loro pochissimi altri. Che un intellettuale è uno che «pensa» e non uno che «la pensa». Che davanti alle parole di un intellettuale l'espressione «sono d'accordo» è del tutto priva di senso.

A queste ultime parole sorrise, malizioso.

«Se è così, posso essere d'accordo con te».

Poi aggiunse. «Però Pasolini e Testori sono morti».

«Tu sei vivo» dissi.

Lui sorrise di nuovo, fece una smorfia, alzò le spalle e si girò dall'altra parte.

Gaber non era mai sodale a priori con il suo pubblico. «Andavamo a sentirlo» ha detto Gioele Dix «per sapere quello che noi stessi avremmo pensato di lì a qualche anno, anche se sul momento ci irritava terribilmente». Per molto tempo i teatri si riempirono di gente che credeva di trovare in lui un complice, poi ci si accorse che lui non strizzava l'occhio a nessuno. Nel 1973, all'indomani del golpe di Pinochet in Cile, durante una manifestazione infuocata ebbe l'ardire di cantare Chiedo scusa se parlo di Maria, forse la sua canzone più bella. Il risultato fu il gelo.

Gaber capì per primo che buona parte dei furiosi estremisti di allora aveva un'anima borghese e benpensante, che lui colpì con alcuni dei suoi spettacoli memorabili già nel titolo (Anche per oggi non si vola, E pensare che c'era il pensiero, Un'idiozia conquistata a fatica); ma capì anche che in quella generale illusione era rimasta un po' di sincerità, e volle salvarla, a costo di essere il solo a farlo.

L'artista in un primo tempo diede a questa cosa un nome, «0partecipazione» (La libertà non è star sopra un albero, Non è neanche un gesto o un'invenzione, La libertà non è uno spazio libero, Libertà è partecipazione). Ma la parola poteva sembrare ambigua, come se declinasse un sentimento generico di rinnovamento collettivo, un'utopia condita con un po' di rabbia o di civismo. Così la «partecipazione» diventò «appartenenza», che è la stessa cosa ma con un accento più profondo: «appartenenza è avere gli altri dentro di sé», dice una celebre canzone, dove la comunità umana è anzitutto una decisione intima, personale, un atto di libertà non derogabile.

Per la destra Gaber fu un uomo di sinistra, per la sinistra finì a destra. Ci resta il suo pensiero, poco catalogabile, sempre vibratile, sempre attento a questa cosa che chiamiamo Realtà, che non è un macigno, ma una domanda nata come un fiore dal tempo presente, alla quale occorre rispondere subito, mettendo in gioco testa, cuore, corpo. Anche quando le teste altrui sono perse tra passato (rimpianto, rancore) e futuro (utopia, rabbia)

Questo è l'artista le cui parole si sono fissate in tanti di noi, mai complici, sempre interrogative, fastidiose. Questo è l'intellettuale come dovrebbe essere. Un umanista vero.

Insomma (come già detto): un uomo.

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