Controcultura

Nonostante tutto diciamo "Alex libero"

Nonostante tutto diciamo "Alex libero"

Anthony Burgess scrisse Arancia meccanica di getto, nel 1962, assieme ad altri quattro libri, per garantire un sussidio alla moglie dopo una diagnosi di tumore cerebrale. Un'opera minore per sua stessa ammissione, se ne sarebbero probabilmente perse le tracce nello sterminato canone burgessiano se non fosse intervenuto Stanley Kubrick che la scelse come progetto successivo a 2001: Odissea nello spazio.

Burgess, sorpreso e deliziato dall'attenzione che gli veniva rivolta, un po' per curiosità e molto per vanità, accettò di partecipare al giro di interviste promozionali del film e si spese in lodi sperticate per Kubrick che aveva «centrato perfettamente l'impianto teologico del libro». Cresciuto con un'educazione rigidamente cattolica, Burgess vedeva Arancia meccanica come «una specie di sermone sul libero arbitrio». Il romanzo raccontava le violente scorribande di Alex e dei suoi «drughi» ma la violenza era marginale: «Il punto è che l'uomo deve poter scegliere, altrimenti cessa di essere un uomo».

La teologia di certo non fa vendere i giornali, per cui i cronisti imbastirono una bella polemica sui rischi di imitazione della violenza e i politici abboccarono della grossa: Arancia meccanica avrebbe «incoraggiato gli impulsi sadici degli adolescenti che, senza alcun dubbio, si sarebbero vestiti come i drughi e quindi avrebbero agito come loro». Seguirono editoriali, interpellanze parlamentari, tentativi di censura e boicottaggi.

Kubrick, che sapeva cavalcare lo Zeitgeist come nessun altro, aveva riportato in vita Alex nel momento perfetto - i primi anni '70, quando imperversava il dibattito sulla gioventù allo sbando, l'ordine sociale in crisi e le minacce di rigurgiti totalitari. Altra cosa in cui Kubrick eccelleva era scomparire: detta la sua in una manciata di interviste, si barricò a casa e non si fece più sentire. Burgess, incapace di resistere alle lusinghe della notorietà, si fece invece trascinare nel polverone mediatico e restò impelagato in una discussione infinita. Iniziò col dire che accusare un'opera d'arte è «una scemenza. Se fosse così, sarebbe impossibile mettere in scena l'Amleto per paura che i giovani spettatori ammazzino i propri zii. E se proprio si vuol dare la colpa alla letteratura per il caos sociale» aggiunse provocatorio, «allora il libro più pericoloso di tutti è la Bibbia, il più eclatante esempio di letteratura vendicativa».

Burgess diceva di aver «banalmente copiato quel che c'è nel mondo» e confessava che il libro era nato «come un atto di catarsi» in risposta all'aggressione di sua moglie da parte di disertori americani, per «imparare nuovamente la carità verso anche i più debosciati esemplari della specie umana». Burgess offriva una risposta ai mali del mondo degna di un buon cristiano: la comprensione e il perdono al posto della vendetta. I benpensanti non si convinsero e rilanciarono: l'ideologia soggiacente al romanzo era nientemeno che fascista. Burgess fu spinto a commettere il peccato capitale di ogni autore, quello di spiegare la propria opera: «La mia parabola vuole affermare che è preferibile un mondo di violenza scelta come atto volontario a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo. Se Arancia, come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari contro l'indifferenza, il pressappochismo intellettuale e l'eccessiva fiducia nello Stato, allora avrà qualche valore».

Troppo facile accostarsi a Orwell; nessun autore di letteratura distopica aveva creato un delinquente affascinante e pericoloso come Alex. Ma Alex rappresenta l'uomo, si giustificava Burgess, e l'uomo è «una creatura fondamentalmente malvagia. Siamo e saremo sempre degli esseri aggressivi». D'altra parte, «se qualcuno è così degenerato da uscire dal cinema con un'idea sbagliata non è colpa mia. Non credo che qualcuno dopo aver visto il film vada a picchiare le vecchiette». Sfortunatamente fu proprio ciò che accadde. Un quindicenne aggredì e uccise un barbone senza apparente motivo e un altro, vestito con una tuta bianca, stivali e bombetta, picchiò brutalmente un compagno di scuola. Per gli avvocati della difesa l'unica possibile spiegazione era l'influenza nefasta di Arancia meccanica, così il giudice invocò il ritorno il prima possibile di una qualche forma di censura.

Burgess, furibondo, si scagliò contro «quei dannati giudici» che invadevano il sacro spazio dell'artista. Ma le continue pressanti accuse, col romanzo divenuto «una specie di archetipo d'ogni male», iniziavano ad avere la meglio su Burgess che, esasperato, cedette: «Detesto quel dannato libro, vorrei venisse eliminato dall'elenco delle mie opere!». Messo alle corde, fu costretto ad ammettere di sentirsi responsabile: «Se scrivi un atto violento, hai creato tale atto! A questo punto è come se l'avessi fatto!». Era a un passo dal dare ragione ai giudici e da invocare il bando sul proprio libro.

Burgess aveva ricevuto sì ricchezza e fama - Arancia meccanica era diventato un bestseller internazionale da milioni di copie - ma solo grazie a Kubrick e al suo controverso film, che non solo oscurava il libro, ma ne pervertiva il messaggio. Il romanzo si chiudeva infatti con Alex che, sulla soglia dell'età adulta, abbandona l'aggressività adolescenziale e diventa un cittadino modello, mentre il film, adattato dall'edizione americana monca del 21º capitolo, lasciava Alex libero di tornare all'ultraviolenza. Poiché il grande pubblico conosceva Arancia meccanica grazie al film, non vedeva alcuna redenzione né soluzioni al problema. Le vere intenzioni di Burgess erano state fraintese a causa dell'interpretazione di Kubrick. Per un autore che costruiva i suoi romanzi come pamphlet moraleggianti, era lo smacco finale.

Negli anni successivi Burgess tentò di riappropriarsi della sua opera e scrisse un adattamento teatrale che si chiudeva così: «Un uomo barbuto come Stanley Kubrick entra in scena suonando con una tromba Singin' in the Rain e viene buttato fuori a calci». Con gli inquieti anni '70 ormai alle spalle, rappacificato con se stesso e con la propria opera, Burgess trovava che Arancia meccanica era stato «un libro che era necessario scrivere».

Parrebbe finita qui. Invece tre anni dopo se ne uscì con un editoriale in cui ritrattava tutto da capo: Arancia meccanica ai giovani non aveva insegnato la violenza, ma «un modo nuovo di agghindarla». A 76 anni suonati si era convinto che «ogni opera d'arte ha un'autorità magistrale, uno slancio che giustifica l'imitazione. L'arte è quindi pericolosa. Sto iniziando ad accettare il fatto che in quanto romanziere appartengo ai ranghi dei minacciosi». Scritto questo, morì. Alex però non voleva morire con lui, tanto meno esserne censurato. Trovò giustizia nelle carte dello scrittore, oggi custodite alla Burgess Foundation di Manchester: non solo non ci sono prove sull'origine del romanzo - nessuna diagnosi di tumore né stupro della moglie - al contrario ci sono lettere in cui Burgess stesso si dice incerto su dove finire la storia, con l'ultimo consolatorio capitolo inserito più per le insistenze dell'editore inglese che per sua scelta. La realtà è che Burgess aveva creato un'opera d'arte capace di generare un impatto mitologico; i successivi tentativi di imbrigliarla, contenerla o spiegarla erano inevitabilmente destinati al fallimento. Una volta messo al mondo un bambino difficile, il padre non ne può sfuggire il destino.

È bene che Alex resti a piede libero.

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