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Il carcere senza carcerieri

Gli "ospiti" (ladri, spacciatori, assassini) sono imputati in attesa di giudizio o condannati ammessi a pene alternative

Il carcere senza carcerieri

nostro inviato a Corano (Rimini)

Lo striscione è gigantesco, appeso sulla facciata: «L'uomo non è il suo errore». La casa colonica è un centro che accoglie detenuti. Un carcere. Al quale però mancano cancelli, filo spinato, telecamere, celle, carcerieri. Si sconta una parte della condanna accompagnati da un gruppo di volontari della comunità Papa Giovanni XXIII, l'associazione fondata da don Oreste Benzi. I detenuti - ma qui li chiamano i «recuperandi» - ci vivono e ci lavorano. Se vogliono uscire devono farsi accompagnare. Ma se vogliono fuggire, cioè evadere, nessuno può trattenerli. «Sì, rare volte è successo», ammette Giorgio Pieri, riminese, coordinatore di questa esperienza che si chiama Cec, Comunità educante con i carcerati. C'è anche chi chiede di tornare indietro, cioè di farsi rinchiudere nuovamente nel penitenziario da dov'è arrivato, perché la vita nelle Cec non è solo rose e fiori. Ma quasi tutti restano. Rimangono anche senza la guardia che li chiude in cella. E c'è chi non se ne va nemmeno a fine pena perché sceglie, liberamente, di trasformarsi da detenuto a volontario.

Secondo le leggi della fisica un calabrone non dovrebbe volare. Anche le carceri senza carcerieri sembrano un controsenso. E invece eccole qui, sulle colline alle spalle di Rimini, aperte e funzionanti. Un casale nel cuore di Coriano, non lontano dal museo intitolato a Marco Simoncelli, dove don Benzi aprì nel 1973 la prima casa famiglia. Un altro, il primo a ospitare detenuti nel 2004, sorge poco lontano, a Taverna di Monte Colombo. Più in là, in cima a un poggio a Saludecio, una fattoria con stalla e caseificio.

Altri luoghi di accoglienza si trovano in Abruzzo, Toscana e Piemonte. Al piano terra le sale comuni, la cucina e la cappella con il Santissimo dove si celebrano le messe e ci si ritrova per i momenti di verifica; di sopra le stanze, singole e doppie. Regnano ordine e pulizia.

LE STORIE

La rete si ispira all'esperienza brasiliana delle Apac (Associazioni di protezione e assistenza ai carcerati), dove i detenuti hanno le chiavi delle celle: l'Onu le ha definite il più efficace metodo di recupero al mondo. In Italia non è possibile arrivare a questo punto. Alle Cec approdano imputati in attesa di giudizio o condannati ammessi alle misure alternative. «Sono persone decise a fare un percorso di riabilitazione e a reinserirsi - spiega Pieri -. Ladri, rapinatori, spacciatori, reati sessuali, qualche omicida: non ci facciamo mancare niente». Leonardo è a Coriano da un mese. È entrato e uscito dal carcere per spaccio, rapina, lesioni. «Sono venuto qui perché non ci voglio più ricascare - racconta -. I miei genitori sono poveri, non ho studiato, non ho lavorato. Il primo a darmi una pacca sulla spalla e dirmi bravo non è stato mio padre ma un malavitoso. E quando sono uscito gli unici a mettermi in mano un telefono e qualche soldo sono sempre quelli del giro».

È un destino comune. Famiglie sfasciate, nessuna opportunità, amicizie sbagliate, scorciatoie per fare soldi. Camara in Senegal lavorava i campi. È arrivato con un barcone. È dentro per spaccio, ha una condanna a 3 anni: «In Italia conosco soltanto delinquenti. Devo mandare soldi alla famiglia». Pieri lo redarguisce: «La droga uccide. Per aiutare i tuoi fratelli hai bruciato il cervello di altri giovani, i più deboli». Loris è cresciuto con un padre violento e alcolizzato. Sfogava la rabbia facendo a botte: «Più le prendevo più mi caricavo». È da due anni nelle comunità Cec: «Non voglio più essere quello di prima, devo riprendermi il mio lavoro».

Don Benzi diceva una grande verità: più importante della certezza della pena è la certezza del recupero. Le carceri senza carcerieri non offrono sconti, nemmeno di pena, ma opportunità. La vita nelle case di accoglienza non è facile. Vigono orari e regole precise: le sigarette sono razionate, l'alcol solo a tavola nelle occasioni speciali, niente telefonini. Per chiamare si chiede. Il percorso educativo è esigente. Occorre entrare in sé stessi, capire il perché della rabbia e della violenza, conquistarsi un'autonomia. Mustafà è giovane, ha l'aria sveglia. Arrivò dal Marocco come migliaia di altri minori non accompagnati. «In Italia avevo trovato quello che volevo: lavoro, soldi, una casa, una squadra di calcio. Eppure sono entrato in un giro di rapine». Il datore di lavoro l'ha preso ai domiciliari, ma lui dopo 6 mesi è evaso. Quando è stato catturato, il titolare non ha voluto più saperne, gli amici idem, e Mustafà è tornato a delinquere. «In carcere a Rimini ho conosciuto Sergio, un volontario della Papa Giovanni. Mi ha detto: Dipende tutto da te. Aveva ragione. È colpa mia».

LA SFIDA

Le carceri senza carcerieri sono una scommessa: si punta tutto sul detenuto e la sua voglia di riscatto. Il «recuperando» riconosce gli errori e si rende conto della propria dignità attraverso il rapporto con gli altri. Già, gli altri: sono l'ostacolo maggiore. Lo ammette Gabriele, che finito il periodo alla Cec vuole tornare dietro le sbarre: «Magari mi avvicino a casa, forse avrò qualche permesso in più o i domiciliari». Ma alla fine riconosce: «Preferisco stare dentro, ho fatto 9 anni, ho quei ritmi, ognuno si fa i fatti suoi e se voglio isolarmi o cambiare cella posso farlo. Invece qui devi convivere». La convivenza è dura per chi si è preso responsabilità soltanto davanti a un boss. Nelle Cec, invece, ogni sera i detenuti si trovano assieme, scrivono com'è andata la giornata e affrontano anche i «richiami»: ciascuno cioè parla degli altri. E rompere l'omertà, la logica di darsi copertura reciproca, è uno scoglio durissimo. «Dentro è più forte chi fa a botte dice Marco, che entra ed esce dal 2010 , qui prevale chi riesce a parlare, a tenere la calma, a trasmettere il valore delle persone».

Nella cucina della casa di Taverna è appeso un tabellone con i voti. Le materie sono parecchie: pulizie, stanze, rapporto con gli altri, coinvolgimento, responsabilità, disponibilità, resoconto, lavoro, verità e omertà, religione. Agli ultimi in classifica tocca il turno piatti. Il lavoro educativo viene fatto dai volontari, generalmente uno per ogni detenuto. Seguono un percorso di formazione e poi danno il tempo che possono. Alcuni di loro sono passati dal carcere. Del responsabile della comunità in Piemonte, Benedetto Basso, il giudice scrisse che era «irrecuperabile». Ruoli di responsabilità sono affidati a persone che hanno commesso reati o assunto droghe. «Il loro sì vale più del mio», ammette Pieri. Giancarlo, bresciano, 55 anni, 16 anni di condanne sulle spalle che a breve finirà di scontare, ha rifiutato un'offerta di lavoro come operaio per restare come volontario nella Cec: «In carcere non stavo male, avevo lavoro e responsabilità. Ma qui ho trovato la famiglia che pensavo di avere distrutto».

La scommessa è vinta? I numeri dicono di sì. La percentuale dei recidivi usciti dai penitenziari è sul 70 per cento, qui del 20, in linea con i dati delle Apac. In Brasile le strutture sono una cinquantina e un altro centinaio sono in costruzione. L'impulso è venuto dai magistrati che ne hanno verificato la validità. Gli Stati federati mettono i soldi. Spiega Pieri: «Hanno un risparmio sociale perché la recidiva è minore, e un risparmio economico rispetto a un carcere tradizionale. Le Apac funzionano in modo sussidiario tra pubblico e privato, come da noi una scuola paritaria o un ospedale accreditato. Allo Stato costa meno finanziare i privati organizzati».

«DIO PROVVEDE»

Il successo è dovuto al metodo che le Cec puntano a replicare: coinvolgere la realtà esterna, cioè il territorio, le famiglie, le aziende, per assecondare il reinserimento; responsabilizzare il «recuperando», che a sua volta aiuta a recuperare; favorire la formazione professionale, assieme a quella culturale e religiosa. In Brasile il responsabile della Fraternità che riunisce le Apac, Valdeci Antônio Ferreira, è stato premiato come imprenditore sociale dell'anno.

«Il nostro obiettivo è portare tutto il metodo Apac in Italia», dice Pieri, compresa la possibilità di scontare nelle carceri senza carcerieri non soltanto le misure alternative ma l'intera pena. La strada è lunga; del resto le riforme in questo campo sono ardue, come dimostra il continuo slittamento del nuovo ordinamento penitenziario promesso dal governo Gentiloni o la difficoltà a finanziare il lavoro nelle carceri, altro strumento efficacissimo per favorire il recupero e combattere la recidiva.

La Papa Giovanni XXIII sta aprendo altre case: «I politici devono vedere che il metodo funziona», è l'idea di Pieri. Quanti soldi ricevono dallo Stato? «Zero».

E chi paga? La risposta è il motto che ispirò don Benzi: «Dio provvede».

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