Cultura e Spettacoli

painting

«Dopo la bomba atomica nessuno poteva più dipingere come prima». Vengono in mente queste parole (di un pittore più giovane di Pollock che però aveva partecipato dello stesso clima espressivo), vedendo la mostra «Action Painting», in corso a Basilea alla Fondazione Beyeler.
Con un centinaio di opere di artisti americani ed europei, da Pollock a Fautrier, da De Kooning a Wols, e prestiti eccellenti dei maggiori musei internazionali, la rassegna ricostruisce con ampiezza quel clima. Se c’è un rilievo da muoverle, semmai, è che insiste troppo sulle affinità di artisti in realtà lontani tra loro, perché se è giusto definire «pittore d’azione» Pollock, l’espressione non va altrettanto bene per l’americano, ma di origine lettone, Mark Rothko, nelle cui tele aleggia un’immobilità metafisica. (E nemmeno per il francese Fautrier, che imposta i suoi lavori su strati di materia sovrapposti). Se è un gesto, il loro, è un gesto lento, quasi meditato. Certo, anche pensare può essere considerata una forma d’azione, ma tra le due cose c’è una bella differenza. Non per niente la critica ha preferito parlare di una «Scuola di New York», più che di una onnicomprensiva «Action Painting», per l’arte americana degli anni Quaranta-Cinquanta.
Ma queste sono questioni che interessano solo i professori. Torniamo invece a Pollock, il maggior protagonista di quel momento. Goethe, nel Faust, ha parafrasato il sublime inizio del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo». Con un bel coraggio, bisogna dire, l’ha cambiato così: «In principio era l’azione».
Pollock fa qualcosa di simile: per lui l’azione è più importante della parola. La pittura non deve dire, né tanto meno rappresentare, nulla. Deve invece testimoniare che in questo momento io agisco, esisto, sono vivo. Per questo la sua pittura è intessuta di energia vitale, di spazi senza inizio e senza fine, di liricità euforica e disperata.
Bisogna stare attenti, però, parlando delle sue opere. Si può correre il rischio di cadere nella retorica del poeta maledetto, della bohème d’oltreoceano. Si può finire, cioè, per raccontare di un artista che cerca in tutti i modi di distruggersi e che, dopo molti tentativi andati a male, finalmente raggiunge lo scopo, guidando ubriaco nella notte a velocità altissima e schiantandosi contro un albero a quarantaquattro anni, l’11 agosto 1956.
Si può correre, però, anche il rischio opposto: quello di considerare l’Action Painting (come dicono negli Stati Uniti) o l’Informale (come diciamo noi in Europa) una semplice ipotesi stilistica: una ricetta fra le tante, nata nel tranquillo laboratorio di quel singolare artista. E invece non va mai dimenticata la confessione cui accennavamo prima: questa è un’arte che nasce dopo la bomba atomica. E non importa se alcuni suoi esiti sono precedenti.
Pollock, comunque, sbarazzandosi di pennelli e cavalletti, gettando la tela per terra e sgocciolandovi sopra il colore, porta alle estreme conseguenze l’idea moderna dell’arte come soggettività, come libertà espressiva, come simbiosi con la vita. «L’unico soggetto sono io»; «Ho fatto uscire la pittura dallo spazio soffocante dello studio e l’ho immessa nell’esistenza»; «Essere artisti vuol dire vivere»; «L’arte moderna esprime l’energia interiore dell’io»; «Non si può esprimere la nostra epoca, gli aerei, la radio, la bomba atomica, con le forme del Rinascimento»: sono alcune sue dichiarazioni di poetica.
Proprio per questa sua radicalità, Pollock è stato un artista che non ha avuto allievi, ma epigoni; non continuatori, ma imitatori. L’unico suo vero erede è stato lui stesso: nelle ultime opere tentava di riprendere quel discorso che aveva voluto interrompere. I suoi lavori estremi non sono più pittura d’azione, ma ricerca carica di dubbi e di ripensamenti. E non si sa se sia stata la morte a impedirgli di continuare a dipingere, o la pittura a impedirgli di continuare a vivere.
D’altra parte bisogna stare attenti anche a parlare genericamente d’azione, nel suo caso. Il gesto di Pollock non è mai incontrollato. Certo, quando sgocciola il colore sulla tela lascia agire il caso. Del resto, se il mondo nasce senza un progetto, perché dovrebbe averlo la pittura? Poi, però, a cose fatte, osserva il risultato e controlla, corregge, interviene, elimina ciò che non va.
E proprio questo scrutinio a posteriori differenzia le sue da tante altre opere che fanno dell’improvvisazione la propria poetica. E che danno l’impressione, appunto, di essere improvvisate.
LA MOSTRA
«Action Painting», a cura di Ulf Kuster. Basilea, Fondazione Beyeler, Baselstrasse 101, Riehen, fino al 12 maggio. Tel.

410616459700.

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