Cultura e Spettacoli

«La Parrucca» anti parrucconi

«La Parrucca» anti parrucconi

È possibile che di una rivista pubblicata a Milano per dodici anni non sia rimasta memoria e che nemmeno i collaboratori più assidui non se ne siano mai ricordati? E dire che su quella testata hanno scritto e molto spesso esordito i nomi più importanti della cultura italiana, poeti, scrittori, giornalisti, da Luciano Erba a un giovanissimo Giovanni Raboni, da Emilio Cecchi a Dino Buzzati, da Indro Montanelli a Mario Cervi. L’elenco degli illustri smemorati, dopo la fine della rivista, è lunghissimo e inspiegabile come se La Parrucca (questo il suo nome) non fosse mai esistita.
Ci voleva uno studioso tenace e curioso come Alvaro Strada per riuscire a consultare gli introvabili numeri della raccolta e ricostruirne le vicende in un libro che s’intitola, appunto Storia di una rivista inesistente (Viennepierre edizioni, pagg. 230, euro 19). Accompagna il libro una ricca antologia della quale vale la pena ricordare qualche titolo: «La caduta degli angeli» (Comisso), «Vitalismo di Casanova» (Chiara), «Un capitano fatto così» (Cervi), «A me il Galileo di Strehler non è piaciuto» (Ottone), «È un’arte la moda?» (Biki). Si tratta, come si vede, dei più svariati argomenti, compreso un pezzo denigratorio di Prezzolini su New York. Ma, se non fosse stato per Alvaro Strada, La Parrucca, con i suoi meriti di palestra per giovani e meno giovani talenti, sarebbe rimasta per sempre nel dimenticatoio. Dopo averci lavorato per anni e aver intervistato numerosi ex collaboratori, Strada dichiara di aver dovuto affrontare reticenze, vuoti di memoria, persino inviti a «lasciar perdere» quasi che intorno alla rivista circolasse un misterioso rifiuto condiviso, fra i tanti, da Luciano Anceschi (che pure vi aveva esordito con il saggio «Decisione della forma»), da Alberico Sala (numerose le sue poesie) da Arbasino (racconti).
Rivista di cultura e costume (per il costume vanno ricordate le rubriche della Biki e di Enzo Tortora), La Parrucca, in un periodo assai povero di testate, nasce al bar Corsino di Pavia il 15 settembre 1953 ma stabilisce la sua sede in via del Gesù nella Milano del dopoguerra, una città che sta risorgendo dalle macerie con vivacità ed energia. Il fondatore è un corrispondente del Corriere Lombardo, Alessandro Mossotti, di ventitré anni, e l’idea gliel’ha suggerita nientemeno che Giovanni Papini, al quale era andato a far visita a Firenze. Già anziano e quasi cieco (morirà nel ’56 a 75 anni) lo scrittore toscano avrebbe in animo di fondare una rivista culturale libera, Il Foglio, ma passa il testimone al giovane milanese e farà in tempo egli stesso a collaborare con «I tre libri di una città» (Divina Commedia, Il Principe e Pinocchio).
Mossotti punta a una rivista «di buon senso» per «gente per bene», a una cultura non schierata come diventerà di lì a poco, dedicata a quella borghesia illuminata che sa apprezzare la libertà di pensiero, che si tiene informata sulle prime alla Scala, che segue con attenzione le rubriche di costume e di moda. Agli eccessi del ’68 mancano ancora degli anni. I ragazzi della Parrucca, sottolinea Strada, «si presentano con la tranquilla franchezza dei giovani di Thomas Mann, la loro giovinezza era senza furori né aggressioni gratuite, la loro milizia letteraria non sottintendeva né la fame, né la fuga dalla provincia ma derivava da una determinazione maturata con l’impegno morale».
Il titolo, che fa pensare a un foglio underground, nasce da una svendita di parrucche bianche in via Monte Napoleone e quei copricapo settecenteschi, indossati a Brera, al Giamaica, fanno immediatamente notizia su La Notte e nei cinegiornali. Si parla di ostentazione goliardica ma per la rivista, seria e dilettantesca nello stesso tempo, è tutta pubblicità che attira gli abbonamenti. «Memorabile quella Milano! - scrive Nico Naldini che ha portato con sé Pasolini - libera, gaudente, euforica \. Era una Milano nottambula che finiva alle 5 del mattino in qualche latteria appena aperta» (la latteria Provini). Tra i frequentatori anche i giovani Eco, Manganelli, Sanguineti, Crovi, Risè, Mulas.
Se i collaboratori non mancano (e lavorano gratis) il denaro per pagare la carta e il tipografo sono il vero problema ma La Parrucca ha sponsor d’eccezione, i Branca e Litrico (il sarto che veste Kennedy) ai quali se ne aggiungeranno molti altri. Fanny Branca, perseguitata dal fisco insospettito dal suo generoso mecenatismo, apre il salotto agli imparruccati. Lo frequentano tutti, Camilla Cederna, Piero Chiara, Soldati e, ovviamente, Mossotti che, sempre pieno di idee, vorrebbe trarre un film da Il settimo piano di Dino Buzzati con protagonista la bella Fanny. La marchesa rifiuta ma finanzierà il premio letterario «Fanny Branca-La Parrucca» che arriverà fino al ’63. La prima edizione è vinta da Edgarda Ferri.
Una polemica agrodolce, ma tutto sommato spiritosa, è sollevata da Montanelli perché un collaboratore della rivista, Lippo Gomez, lo ha criticato aspramente. «Nel leggerla mi sono molto arrabbiato, come forse lei sperava che accadesse - scrive Montanelli a Mossotti - ora però non mi faccia la sgarberia e l’ingiustizia di riservare solo a me le ironie di Gomez \. Fra gli amici materia ce n’è».


Ma perché, dopo tanto successo e tanta vitalità, La Parrucca chiude nel 1965? Chiude, a sentire Strada, perché i tempi stanno cambiando, perché nell’aria si cominciano a sentire i furori degli anni a venire, perché la buona borghesia non riceve più, non partecipa più alle iniziative culturali, ma lascia il posto a una società emergente che bada al successo e al denaro e non sa che farsene delle parrucche.

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