Da Pasolini a Nanni Moretti, i compagni raccolti per strada

«Il Secolo d’Italia», quotidiano di Alleanza nazionale, è forse il giornale italiano che più si è divertito negli ultimi anni a sparigliare le carte della noiosa briscola della cultura, giocata da quegli intellettualoni noiosi che pretendono di etichettare sempre le cose, che pretendono di scriverci sopra: questo è di destra, questo, invece, è di sinistra. Così, se l’ultimo ripescaggio fatto dal «Secolo» è quello del regista Nanni Moretti, non sono mancati i precedenti, tutti pensati per far venire una sincope agli ortodossi dell’uno e dell’altro schieramento. Ecco solo qualche esempio. Già a metà degli anni Novanta, a partire da alcuni articoli scritti da Enzo Palmesano (anche per altre testate), il giornale che fu dell’Msi riscoprì l’importanza di uno scrittore come Pier Paolo Pasolini. Lo «scippò» dal pantheon della sinistra sottolineando l’attenzione che lo scrittore aveva per il mondo delle borgate, della tradizione popolare e, perché no, per la stessa destra estrema. Pochi anni dopo, nel 1997, fu Pietro Gobetti (1901-1926), il fondatore della rivista «La rivoluzione liberale», il quale dovette espatriare a causa delle aggressioni fasciste, a essere raccontato in una chiave nuova sulle colonne del «Secolo». Un articolo di Bruno Gatta e poi diversi interventi di Mario Bernardi Guardi ne mettevano in luce la vocazione populista e le simpatie prezzoliniane. Tanto da provocare un peana sdegnato e corale dei pensatori di sinistra: Veca la definì «un’operazione ingiustificata», Cofrancesco stigmatizzò con un «grave apprezzarne gli aspetti meno liberali». Ma sarebbe bastato poco più di un anno per provocare un nuovo scandalo, questa volta a partire da Alberto Moravia. Il «Secolo» scrisse che l’autore de «Gli indifferenti» era fondamentalmente un liberale radicale, ma tutt’altro che un uomo di sinistra. Anzi «fu e restò sempre un uomo che nasceva dalla borghesia e non vedeva soluzioni sociali oltre la borghesia». E se sin qui quelli elencati sono recuperi tutti in punta di cultura, postumi e lontani dalla sfera propriamente politica o dagli interessi di gran parte degli italiani, negli anni a seguire quella del «Secolo» si è trasformata in una vera e propria offensiva: nel 2005 scatenò un pandemonio su Vasco Rossi, a partire dal titolo «Blasco è uno di noi». Poi nel 2007 fu il turno di Che Guevara, almeno nel suo essere icona dell’avventura e della rivolta, un simbolo tutto europeo e per certi versi per nulla ideologico. A seguire arrivò (e questo fu un vero macigno lanciato nello stagno della pigrizia culturale) la riflessione sulla canzone simbolo della resistenza: «Bella Ciao».

Quella che secondo il «Secolo» va considerata una canzone che, se estrapolata dal contesto, parla solo di una bella ragazza e della libertà, una canzone insomma non tanto diversa da «Ciao biondina/ ci rivedremo/ un bel giorno». E anche in questo caso i maldipancia furono numerosi da entrambi i lati della barricata ideologica.

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