Lorecchio non ha le palpebre. Ne consegue che locchio si chiude, e può non vedere, mentre lorecchio resta sempre aperto, vulnerabile. Costretto ad ascoltare qualsiasi cosa, o quasi. Eppure la vista è da sempre considerata la nostra primigenia finestra sul mondo, il nostro senso principale, la cui forza indagatrice/ingannatrice finisce per sminuire tutti gli altri.
Ecco perché, allora, può essere utile far frusciare, ascoltandone il rumore, le pagine di Paesaggi sonori (il Saggiatore, pagg. 362, euro 35, trad. Franco Fabbri e Alessandra Gallone). È una piccola antologia di saggi «audiofili», curata da Michael Bull e Les Back, in cui con una trattazione multidisciplinare si cerca di portare il lettore in unaltra dimensione. Una dimensione tutta caratterizzata dal suono e dalla sua percezione. E in effetti leggendo, magari non ci si predispone allattitudine all«ascolto profondo» suggerita dai curatori, ma di certo si impara moltissimo sulluniverso fonico che ci circonda. Qualche esempio?
Chi non la ricorda riscoprirà la storia di Dionigi, il tiranno di Siracusa che costruì le prigioni in forma di cassa armonica per ascoltare i bisbigli segreti dei prigionieri. Oppure imparerà come il calypso sia sbarcato in Gran Bretagna cambiando per sempre il modo british di intendere la musica. O, ancora, come le campane abbiano avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del localismo e quanto la parola campanilismo sia radicata nel suo senso etimologico. E non si tratta semplicemente di curiosità o di vezzosi giochi culturali, come quello del professor Bruce R. Smith di ricostruire lambiente sonoro della Londra del XVII secolo, quanto piuttosto di spunti per cercare una nuova chiave di lettura della storia, dellantropologia, della sociologia e di molto altro ancora.
Come nel caso delle riflessioni di Jonathan Sterne sulla medicina come scienza dellascolto.
Passeggiando nei «Paesaggi sonori» si guarda il mondo con le orecchie
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