Tra passione e mercato il capolavoro Farsettiarte Casa d'aste da 58 anni

Tra passione e mercato il capolavoro Farsettiarte Casa d'aste da 58 anni

Ci vuole passione e un certo «pallino», fortuna e visione. Ci vuole amore per l'arte e senso degli affari. Parola di Frediano Farsetti. Nello scorso fine settimana la sua casa d'aste ha venduto un'opera di Andrea Mantegna: un foglio formato cartolina disegnato su ambo i lati, due studi per una «Pietà» dell'artista padovano: opera stimata in catalogo 140mila-220mila euro e aggiudicata a 509.650, dopo essere stata contesa dai migliori collezionisti.
È l'ultimo colpo andato a segno. Ma dal 1955, quando con il fratello Franco ha fondato la Farsettiarte, Frediano Farsetti ha mediato oltre 80mila opere, e di ciascuna conserva schede e immagini in un minuzioso archivio a Prato. In 58 anni di attività, fra le aste e le prestigiose esposizioni in galleria, la Farsettiarte ha attraversato tutte le Italie del Dopoguerra, ed è riconosciuta come la casa più importante del Paese, con le sedi di Prato, Milano e Cortina. E Frediano Farsetti, in una vita dedicata all'arte e al mercato delle opere, ha conosciuto tipi umani di ogni genere: gli artisti, gli appassionati, qualche «banditello» e i collezionisti che in punto di morte decidono di firmare lasciti allo Stato, piuttosto che lasciare i capolavori in eredità a figli con le «mani bucate». Fiorentino, nato «di là d'Arno» in una famiglia normale: «Non eravamo poveri - racconta - ma neanche ricchi. Artigiani, poi imprenditori». Ha cominciato da un corniciaio, garzone di bottega. Fiorentino, è a Prato che ha costruito la sua vita. «Qualcosa di vero c'è in quel che dice Curzio Malaparte. I pratesi sono gente speciale. Sono arrivato nel ‘51. A Firenze c'erano circoli culturali, a Prato facevano le mostre nei bar, sapevano tutti qualcosa di arte. Andavano all'estero. Fossi rimasto a Firenze probabilmente farei ancora cornici». Inizia invece, in un locale di sette metri per tre, metà galleria e metà bottega, a organizzare mostre che fanno scalpore e successo. E Prato, dove oggi ha la sede accanto al museo d'arte contemporanea «Pecci», è stata una scommessa vinta. Anziché cedere alla tentazione di spostare l'attività in città potenzialmente più ricche ha preferito continuare a “giocare in casa” e i risultati non si sono fatti attendere. «A Prato venivano da tutta l'Italia, gli alberghi e i ristoranti cittadini si riempivano, i due giorni d'asta erano diventati un avvenimento». Nel '66, anno dell'alluvione di Firenze, mette su un asta a novembre temendo un fallimento e invece fa centro un' altra volta. «C'erano sì i telefoni - racconta, pensando a ormai 40-50 anni fa – ma, nonostante le difficoltà a muoversi in quei giorni, la sala era piena. Dai primi anni 70 all'hotel Palace a volte arrivavano così tante persone che andavano divise in due sale, nella principale poteva entrare solo chi aveva la prenotazione, nella seconda si poteva seguire l'asta attraverso un monitor e rilanciare tramite un secondo banditore».
Oggi si confronta con le principali case d'asta straniere, le quali, però, sembrano avere buon gioco in Italia. «La nostra legislazione penalizza molto gli operatori italiani e, se non si prenderanno a breve seri provvedimenti, il nostro mercato dell'arte rischia di essere completamente emarginato. Dalla legge sulla tutela del patrimonio artistico, all'istituto della notifica, all'indetraibilità fiscale degli investimenti in opere d'arte, niente gioca a favore del nostro mercato, col rischio di una totale delocalizzazione degli scambi fuori dai nostri confini. Anziché tutelare e promuovere il nostro patrimonio lo stanno progressivamente impoverendo. Se ne stanno avvantaggiando solo gli operatori stranieri, e questo è paradossale perché in fondo lasciamo beneficiare altri dei frutti di quel “genio” tutto italiano». Alla domanda di cosa ne pensa dei prezzi da capogiro che raggiungono in mercati Oltreoceano certe opere d'arte contemporanea, risponde: «Ci sono dei fenomeni che vanno al di là della qualità e del valore artistico, questi sono dei territori dove il confine tra arte e finanza è talmente debole che si possono fare scorribande in tutte le direzioni. Dovessi consigliare un collezionista su come spendere 5 milioni di euro, lo indirizzerei su grandi artisti, sulla grande pittura o scultura, non avrei animo di suggerirgli l'acquisto di uno squalo sotto formaldeide. Il consulente finanziario non è il mio mestiere. Un capolavoro comunque parla da solo, l'arte non può essere creata a tavolino». Qualche debole? Per lui «Ottone Rosai è il più grande artista italiano del Novecento. Lucio Fontana? L'ho conosciuto a Milano alla Galleria del Naviglio. Il museo del Novecento di Milano? Bellissimo. Un po' affogato, sembra che questi spazi li facciano più per la gioia degli architetti che per vedere bene le opere». E i nuovi? «Maurizio Cattelan? Ha una fantasia vivace, una certa genialità e una buona dose di provocazione. Il grande artista non lo fa il mercato.

Lo fa il tempo».

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