Perché i turisti snobbano il Paese delle meraviglie

Tutti i cosiddetti analisti concordano: sarà il turismo l’affare più ghiotto dei prossimi anni. Cento milioni di viaggiatori arriveranno solo dalla Cina, secondo le previsioni degli europei. E dunque all’appuntamento la Francia, la Spagna e gli Stati Uniti, che figurano tra le prime mete in classifica, si preparano con dovizia di orgogliose iniziative. Si dà, tuttavia, il caso che tra i luoghi più desiderati e visitati nel pianeta ci sia anche il nostro straordinario, ma distratto Paese. Che sarebbe «il più sognato» proprio dai cinesi, secondo una recente ricerca. E Venezia risulta tra le città non solo maggiormente adorate all’estero, ma perfino imitate per tentativi, talvolta surreali, di mini-ricostruzione. E Roma col suo Colosseo da poco proclamato una delle sette meraviglie evoca, ovunque, storia antica; e allo stesso tempo ispira fede moderna per un pubblico potenziale di un miliardo e passa di credenti.
L’ultimo rapporto Unesco indica l’Italia come la nazione col più alto numero di siti «patrimonio dell’umanità»: ben quarantaquattro sugli oltre ottocento. Delle bellezze naturali non è neppure il caso di dire. Ma a fronte di tutto ciò che quasi naturalmente dovrebbe dare al nostro Paese il primato del posto in assoluto più frequentato dai viaggiatori stranieri - e tale primato infatti aveva negli anni Sessanta -, siamo oggi a inseguire la quinta marcia innestata dagli spagnoli, dai francesi, dagli americani, dagli stessi cinesi. Fra tante «battaglie strutturali» sarebbe ora che i governi assegnassero al turismo il metro dell’«interesse nazionale». E che avessero un atteggiamento istituzionale al riguardo. Come ce l’ha la Spagna, dove sorge l’organismo internazionale - o riconosciuto come tale - preposto al settore (e perché non sorge in Italia?). Come ce l’ha la Francia, che somma tra i suoi visitatori anche l’ignaro automobilista di passaggio magari diretto in Germania: tutto fa brodo, alla fine, e tutto contribuisce al prestigio e all’economia di quella lungimirante nazione (e perché l’Italia non adotta analogo criterio?). Come fa pure l’America attraverso una rete di motel che agevola il turismo di massa.
E poi l’insopportabile provincialismo di usare un inglese maccheronico, cioè comico, per «comunicare» l’immagine dell’Italia. Borges, probabilmente l’unico argentino privo di origini italiane, sosteneva che i latino-americani dovessero rassegnarsi a leggere la Divina Commedia in italiano, perché le pur esistenti traduzioni in spagnolo non rendevano l’idea. Sarebbe ora che a tutti i livelli, dal governativo alle agenzie di turismo, agli Istituti italiani di cultura, a chiunque intendesse cimentarsi a livello internazionale sul tema turistico e/o culturale, sarebbe ora che costoro presentassero l’Italia come mamma l’ha fatta, agli occhi del mondo: facendola semplicemente «vedere» e con pochi, incisivi e ormai internazionali vocaboli in lingua italiana. Basta una parola: «Italia».
f.

guiglia@tiscali.it

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