Controcultura

Perché l'Italia non è riuscita a fargli "La pelle"

Vittima dell'indifferenza e dell'odio conformista lo scrittore racconta ancora il nostro Paese

Perché l'Italia non è riuscita a fargli "La pelle"

Il tempo, si sa, aiuta a far piazza pulita dei fraintendimenti. Uscito di scena che non aveva sessant'anni, nel 1957, nel giro di un decennio Malaparte si ritrovò a essere un estraneo. Il romanzo che inaugura il nuovo ciclo dei '60 si chiama La noia, del suo amico-nemico Moravia: arte astratta, sesso stanco, crisi dell'impegno, il colore e l'odore dei soldi, nuove divinità, psicanalisi e marxismo a braccetto, interni borghesi, uno scrivere plastificato, quasi scientifico nell'analisi. Per l'autore della Pelle non c'è più posto, arcitaliano in un'Italia che si vergogna di essere nazione, rivoluzionario e estremista in un Paese che si affida a due partiti-chiesa e al conformismo ideologico che da essi promana, individualista e narciso lì dove la scrittura non è più una passione assoluta o una vocazione, ma una professione, e lo scrittore un salariato orgoglioso di esserlo, una rotella della società industriale, un ingranaggio della lotta di classe.

Al disincanto pubblico si aggiunge il regolamento dei conti privato: troppo ha detto, e scritto, e polemizzato, e amato, e odiato da vivo perché da morto non gli si ritorca contro. Legioni di giornalisti che non sono mai andati di là da Mentone giureranno sul suo provincialismo, legioni di intellettuali il cui piacere estetico è rimasto confinato al pied-à-terre, pontificheranno sul suo cattivo gusto, legioni di romanzieri asfittici e furbastri diranno che era tutto falso, stile e contenuto.

Fu un lungo purgatorio, ma all'inizio degli anni Ottanta, nel ripubblicare Il Battibecco malapartiano nella sua Torre d'avorio per Fògola, Piero Buscaroli osservò come un quarto di secolo fosse il tempo giusto per tornare a raccontare con lui quel «naufragio di un'Italia in cui, a suo modo, aveva creduto, e che, sempre a suo modo, aveva servito; con tutto l'egoismo, l'ingordigia e la vanità possibili, ma, quando occorresse, con tutta la generosità e il coraggio immaginabili». Quella raccolta poetica, datata 1949, gli Inni, le Satire, gli Epigrammi del dopoguerra, «le poesie del naufrago», si rivelava singolarmente il ritratto dell'Italia che ci circondava allora e che continua a circondarci adesso: «La Repubblica, ahimé, sta molto male: / ha già chiamato il prete al capezzale. / Or ch'è in punto di morte, al Padreterno / l'anima affida e sol nel Papa spera. / E credi che se muore andrà all'inferno? / Credo che se muore andrà in galera». E ancora: «Osse dure ha l'Italiano: / non c'è dente che le intacchi, / non c'è zanna che le fiacchi. / Così dure, che assai spesso/ (l'Italiano è un cane strano) / si rosicchia da se stesso. / Con me non v'adirate se vi dico / cosa ormai nota e che negare è vano: / che dell'Italia il peggior nemico / è il popolo italiano»...

Un gruppo benemerito di intellettuali vorrebbe che nel sessantesimo della sua morte venisse dato a Malaparte il premio Strega alla memoria.

Ma perché? Lo Strega comunque passa, Malaparte comunque resta.

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