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Per pirati e per signori È la Babilonia del rum

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Se Darwin avesse esteso la sua teoria anche ai distillati e non solo ai fringuelli delle Galapagos, avrebbe notato che l'evoluzione della specie umana si misura anche con un altro metro: il rum. Ai tempi di Churchill, la triade per definire la dura vita in Marina era «sodomia, rum e frusta». Poco invitante. Oggi invece la triade del buon gusto è «sigaro, rum e cioccolato». E qualcuno ancora si ostina a negare l'evoluzionismo?

Fuor di metafora e con buona pace dei fondamentalisti astemi il grado di edonismo e consapevolezza con cui assaporiamo il rum è metro della nostra civiltà. Da avventurieri schiavisti a imprenditori e professionisti, da razziatori e pirati a signori e buoni conversatori, il rum ha traghettato gli europei fuori dai secoli gloriosi ma violenti del colonialismo. Ci sono traffici, avventure e storie che galleggiano nel nostro bicchiere, tra un riflesso color caramello e i richiami di frutta secca. E il fatto che finalmente non lo trangugiamo più soltanto per stordirci (i chupiti in discoteca non sono meno barbari delle razioni di grog per sopportare le traversate sui galeoni) ci dice che forse il genere umano sta migliorando, anche se la strada da fare è ancora tanta.

Il Rum Festival & show in programma oggi a Milano all'Hotel Marriott è un'occasione per portare un po' più in alto l'asticella della conoscenza di questo spirito esotico dai contorni così indefinibili. Una giornata di degustazioni guidate, seminari e soprattutto di etichette da assaggiare. Perle caraibiche, imbottigliamenti introvabili, l'occasione di scoprire qualche segreto oltre la cortina di vetro dei soliti Bacardi, Havana e Zacapa. Perché nessun altro distillato è così intimamente anarchico: dolci, robusti, da dessert, da cocktail con frutta, densissimi, femminili, infuocati, vellutati. Esiste un rum per ognuno di noi, solo che ancora non lo sappiamo. Gnòthi seautòn, conosci te stesso, è scritto sul tempio di Apollo a Delfi. Ora occorre conoscere anche il rum, però. E dunque conoscere la differenza tra distillazione a colonna e pot-still, tra lo stile inglese dei rum di Barbados, Jamaica e Guyana, ricchi e pesanti, e lo stile spagnolo, floreale e leggero; occorre destreggiarsi tra i meandri dei rhum agricole di ispirazione francese, prodotti secondo un disciplinare rigidissimo all'ombra dei «palmizi venerati» della Martinica, e Paolo Conte ci perdonerà perché da buon astigiano sa che il vino e il rum possono essere poesia.

Scomodare la poesia per un torcibudella è troppo? D'accordo, ma qui parliamo del «bollente, infernale e terribile liquore» che diventò moneta ufficiale delle colonie britanniche, del barile su cui Washington tenne il suo discorso nel 1789. Se non è poesia è almeno letteratura e cultura. La cultura della canna da zucchero, l'unica canna che valga la pena legalizzare. L'«alma de Cuba» è marketing, la realtà è fatta dalle melasse meravigliose di certi Demerara come l'Enmore o dal succo purissimo di prima spremitura del Rhum Rhum Liberation, creato con lieviti di champagne e alambicchi austriaci da Gianni Capovilla. La realtà sono i Rare Rums Port Mourant, i legnosi Caroni o l'infinito Appleton Estate 21 anni. La realtà è che, al di là delle suggestioni tropicali alla Corto Maltese, il rum è una giungla di etichette che rispecchia l'indolente disordine centroamericano. Il rum è Babilonia nel bicchiere, un caos meticcio. Entrarci è complicato, ma una volta imparate le leggi imponderabili della sua scienza inesatta, ciascuno può trovare una risposta.

Che tu sia pirata o signore, comincia ad assaggiare.

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