Cultura e Spettacoli

Il pittore dei Lord spopola a Londra

Batoni dipinse gli aristocratici del Grand Tour. Fu famoso e poi dimenticato. Oggi lo riscoprono

Da Londra
Nel Settecento Pompeo Batoni era uno dei pittori più celebrati d’Europa, ritrattista per eccellenza dell’aristocrazia inglese del Grand Tour contava fra i suoi patroni anche Federico il Grande e Caterina di Russia. Ma solo due anni dopo la sua morte nel 1787, Reynolds in Inghilterra ne pronosticava il declino e l’oblio, come puntualmente avvenne anche in Italia: pochi artisti nel XIX secolo e gran parte del XX sono stati tanto dimenticati o disprezzati. Solo negli ultimi anni l’artista romano è stato riscoperto e rivalutato da studiosi internazionali che ripropongono la sua opera in una rassegna-apoteosi in corso alla National Gallery di Londra.
Organizzata per il terzo centenario della nascita e curata da Dawson Carr, conservatore della pittura italiana del 1600-1800 nella pinacoteca londinese, la mostra «Pompeo Batoni 1708-1787» (fino al 18 maggio), riunisce i ritratti dei grandi viaggiatori che si incontravano nell’atelier romano del pittore con i grandi dipinti mitologici e sacri che nell’Estasi di Santa Caterina da Siena toccano il vertice. Sessanta opere ad olio, provenienti da collezioni di tutto il mondo, da San Pietroburgo a New York, ripercorrono l’evoluzione dell’artista lucchese formatosi a Roma, dove presto si distinse non solo per la sua perizia nel disegno, nella composizione e nell’uso disinvolto della pittura, ma per un eccezionale repertorio di pose e invenzioni. Intorno al 1740 aveva già completato numerose tele mitologiche e sacre, del 1733 è la Visione di San Filippo Neri, che introduce la rassegna, una pala d’altare tardo barocca, in cui l’immediatezza del volto del santo coglie in straordinari dettagli l’intensità visionaria della sua fede. Una delle diverse opere sacre nella rassegna che, secondo un eminente e idiosincratico critico inglese, testimoniano come Batoni il grande ritrattista fosse anche, «in un’epoca di illuminismo laico, l’ultimo grande pittore della Controriforma, l’erede di Raffaello, Correggio e Barocci, Guido Reni e Maratta». Come nel quadro della la tradizione pittorica romana fosse ciò che Tiepolo fu per Venezia, «la sua ultima vigorosa fioritura».
Uomo colto del suo tempo Batoni era convinto dell’impeto ispiratore dei testi classici. A cominciare dalla metà del secolo produsse una serie di ritratti eleganti e informali, in interni, o sullo sfondo della campagna romana, sempre definiti da testimonianze dell’antichità, che ne fecero in breve il beniamino dei giovani aristocratici inglesi, scozzesi e irlandesi che trasportati dall’onda del Grand Tour approdavano a Roma. «Se Lord Cholmondeley va a Roma, pregatelo di portarmi un suo ritratto dipinto da Pompeo Batoni», scriveva Horace Walpole a sir Horace Mann nell’inverno del 1771. Erano dipinti straordinari sia per l’incisiva somiglianza del soggetto sia per l’audacia della composizione, libera, ben delineata, che agli occhi degli inglesi ne faceva un degno successore di Rubens e Van Dyck.
Se nell’immensa tela commissionata dal colonnello William Gordon nel 1765 l’eccesso ampolloso rasenta il ridicolo nella parodia del classico contrapposto all’antichità - il colonnello in kilt fasciato da un’ampia sciarpa scozzese si staglia imponente sullo sfondo del Colosseo - non così nel Ritratto del giovane conte di Lettrim, appoggiato a una mensola con un busto di Omero, né nel sobrio ritratto di Sir Humphry Morice circondato dai suoi levrieri, né tantomeno nel magistrale triplo ritratto a figura intera - variante di una sacra conversazione - di Sir Watkin Williams-Wynn, Thomas Apperley e Edward Hamilton che esemplificano il suo comando delle luci, del colore e della struttura, la precisione anatomica dei lineamenti, l’espressività delle mani e del portamento che suggerivano gli interessi del soggetto. Batoni sapeva cogliere il cambiamento negli abiti dei viaggiatori del Grand Tour che a Roma indulgevano al gusto italiano per le sete sgargianti, per i vestiti di broccato, velluto e damasco.
Il Grand Tour era diventato una parte integrante dell’educazione dell’élite britannica, soprattutto maschile, nel XVIII secolo. Se iniziava con soggiorni nell’Europa del nord, obiettivo principale dei viaggiatori era sempre l’Italia, la cui importanza il dott. Johnson sottolineava osservando che «tutta la nostra religione, quasi tutte le nostre leggi e le nostre arti, tutto quanto ci eleva al di sopra dei selvaggi, è venuto dalle coste del Mediterraneo». Grandi attrazioni del Grand Tour erano Firenze, Roma, Napoli e Venezia, benché dall’itinerario non mancassero Parma, Modena, Bologna, Ancona, Ravenna, né la Lombardia e il Piemonte, e alcuni entusiasti di archeologia si dilungassero a Paestum e Agrigento. Ma Roma era sempre la destinazione più ambita, poiché Roma aveva «tutto ciò che può divertire, interessare o istruire la mente», assicurava il quarto conte di Bristol. In Batoni l’élite britannica a Roma aveva trovato il suo interprete più attento e raffinato. Dalla mostra sono purtroppo assenti i disegni, meravigliosi studi in sanguigna di statuaria antica, squisite opere prime che troviamo riprodotte nel bel volume che accompagna la rassegna, a cura di Edgar Peters Bowron e Peter Bjorn Kerber.
LA MOSTRA
«Pompeo Batoni», National Gallery, Londra, fino al 18 maggio. Catalogo Yale University Press. www.

nationalgallery.org,uk

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