Pochi figli? Il caso Italia si studia negli Usa

Una ricerca condotta dagli antropologi della Brown University spiega perché in un paese cattolico come il nostro la famiglia non è più considerata un valore

Siamo un caso. Il mondo ci guarda. Addirittura finanzia ricerche in loco su di noi. Perché, da un decennio a questa parte, il mondo non ci riconosce più: l’Italia, paese della famiglia e dell’amore per i figli, si è trasformata in una nazione che sfiora ogni volta il baratro del record di bassa fecondità. Sul problema si sono accaniti demografi, psicologi, economisti e politici. Adesso ci provano gli antropologi con una ricerca, finanziata dagli accademici statunitensi della Brown university di Providence, in quattro città italiane significativamente coinvolte nel calo delle nascite: Bologna, Padova, Napoli e Cagliari.
La ricerca è diventata un libro, che viene presentato oggi a Napoli a Palazzo Serra, dal titolo quanto mai eloquente: Non sono tempi per fare figli. Orientamenti e comportamenti riproduttivi nella bassa fecondità italiana (Guerini e associati, pagg. 184, euro 18,50) a cura di Fulvia D’Aloisio. Alla quale abbiamo subito chiesto che cosa ci possa dire di nuovo questa ricerca.
«La novità sta prima di tutto nell’approccio» ci spiega D’Aloisio, antropologa dell’università L’Orientale. «Deriva dalla scuola di David Kertzer, che si occupa da anni di studi sui cambiamenti sociali nel nostro Paese. Questa è la prima indagine in Italia ad aver affrontato il tema della bassa fecondità dal punto di vista antropologico in modo applicativo».
Il che significa che il gruppo di studio, coordinato dal professor Marzio Barbagli, non si è limitato ad analizzare dati demografici, ma ha condotto circa duecento interviste nelle quattro città di cui sopra: «La ricerca è avvenuta sul campo» prosegue D’Aloisio, «per scandagliare le ragioni dei comportamenti riproduttivi in profondità. Ci siamo recate nei consultori, nelle ludoteche, in asili infantili o, come nel caso di Padova, in parrocchie dove si svolgono corsi di introduzione alla genitorialità e in generale in tutti i punti di osservazione in cui sia possibile osservare le dinamiche della formazione della famiglia. Le interviste si sono svolte faccia a faccia con campioni soprattutto di donne che hanno avuto figli o ne devono avere. Ci abbiamo messo circa due anni a raccogliere i dati».
Alla Brown University siamo parsi interessanti anche perché siamo un paese cattolico e come tale il dato della bassa natalità sembra incompatibile con il nostro orizzonte culturale. E poi per i tempi lunghissimi degli studiosi, i trent’anni in cui «tutto è cambiato» - solo negli anni Sessanta eravamo ancora in pieno trend positivo - possono far parlare di «calo repentino».
Dalla ricerca emergono due linee guida: «Lo scarto tra il desiderio di maternità nelle giovani donne e l’effettiva realizzazione del progetto riproduttivo è altissimo» assicura D’Aloisio. «Fino ai trent’anni, le intervistate affermano di volere figli, magari anche due o tre. Di contro, la preoccupazione collettiva nei confronti della maternità è in calo. Le donne non vengono più stigmatizzate quando decidono di rimanere senza figli». Le conseguenze sono che il progetto riproduttivo non ha più un valore assoluto, ma viene messo in competizione con molte altre finalità. Il senso della maternità è costretto a «incastrarsi» in un futuro più eterogeneo. «Qualche isola di conforto c’è: a Napoli le donne cercano di salvare il modello della famiglia con due figli. Per salvaguardare il legame tra fratelli. Sebbene sia un progetto “contenitivo”: prima i figli erano molti più che due» commenta D’Aloisio.

E indica secolarizzazione, globalizzazione, emancipazione femminile, valore assoluto del tempo da dedicare a sé tra le cause della disaffezione alla riproduzione. Ma davvero è tutto così negativo, davvero non sono tempi per fare figli? «Diciamo che non è tutta colpa della società. Da una parte non sono tempi. Dall’altra però non ci sono volontà».

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