L'analisi del G

Perché Israele non chiude la guerra a Gaza

Settimane fa, l'esercito israeliano ha studiato un piano del tutto funzionale per porre fine alla guerra, spingendo le forze nel rimanente segmento di Rafah della Striscia di Gaza per combattere gli ultimi membri di Hamas e aprendo in contemporanea una via di evacuazione sicura per permettere a più di un milione di palestinesi sfollati da Gaza e da Khan Yunis (...)

Perché Israele non chiude la guerra a Gaza

Settimane fa, l'esercito israeliano ha studiato un piano del tutto funzionale per porre fine alla guerra, spingendo le forze nel rimanente segmento di Rafah della Striscia di Gaza per combattere gli ultimi membri di Hamas e aprendo in contemporanea una via di evacuazione sicura per permettere a più di un milione di palestinesi sfollati da Gaza e da Khan Yunis (...)

(...) di tornare a casa. Un'operazione essenziale dal punto di vista tattico, perché Hamas usa la folla come scudo quando spara contro gli israeliani, con uomini armati che si posizionano dietro i civili terrorizzati e indifesi. In maniera naturale, questa tattica avrebbe ridotto le vittime civili, numeri potenti sotto il profilo politico che i media mondiali continuano ad accettare da Hamas, che include le proprie vittime nel numero.

Una parte essenziale del piano per Rafah prevedeva di fornire ampie scorte di cibo e acqua lungo il percorso per consentire agli sfollati di procedere al loro ritmo migliore, cioè senza doversi fermare per cercare cibo in condizioni caotiche. Per quanto riguarda l'ovvio pericolo che gli uomini armati di Hamas potessero uscire da Rafah mescolandosi agli sfollati, non esisteva la possibilità di controllare ogni individuo presso una barriera di uscita designata da Rafah senza rallentare in maniera irrimediabile l'evacuazione, inducendo così molti a rimanere fermi. Ma anche su questo è stata trovata una soluzione ingegnosa: invece di doversi fermare nei check-point, gli sfollati avrebbero potuto proseguire senza interruzioni tra le file delle truppe da entrambi i lati, dotate di sensori assortiti oltre che di occhi attenti, e sorvegliate da mini-droni per individuare gli uomini armati.

Desiderosa di vedere la fine dei combattimenti, la Casa Bianca di Biden era più che disposta ad approvare l'offensiva conclusiva, a patto che gli israeliani continuassero a combattere senza il supporto di bombardamenti aerei, tranne che in rari casi, e continuassero a essere molto parsimoniosi con la loro artiglieria.

In apparenza era tutto pronto per l'offensiva, ma poi non è accaduto nulla, e questo, in ultima analisi, a causa della «frizione» che pervade ogni guerra conosciuta, con grande frustrazione degli abili pianificatori di battaglie.

Come spiegato per la prima volta da Von Clausewitz, ancora oggi insuperato filosofo della guerra, la frizione è costituita da molti impedimenti separati, alcuni davvero banali - come una gomma bucata alla vigilia di una gita in famiglia - e altri più sostanziali: dalle suppliche degli ufficiali addetti ai rifornimenti che avevano bisogno di più tempo per fornire cibo e acqua a un milione e mezzo di persone lungo il percorso di evacuazione, consegnando al contempo le munizioni necessarie alle forze che entravano a Rafah, ai ritardi incessanti causati dai negoziatori del Qatar. Questi hanno presentato un piano davvero, davvero buono per rilasciare gli ostaggi, libero dalle assurde condizioni poste dal comandante fuggitivo

di Hamas Yahya Sinwar, che nel precedente round di negoziati si era limitato appena a chiedere la resa incondizionata di Israele. Facendo circolare la voce, poi confermata, che i governanti del Qatar avessero ordinato ai leader di Hamas che ospitano in un gran lusso di presentare un piano adeguato per il rilascio degli ostaggi o di andarsene dall'Emirato, il ritardo si è accumulato ancora.

Ma quando ho chiesto a un mio amico al quartier generale come mai i giorni e le settimane passassero senza che Rafah venisse attaccata e perché la guerra persistesse, la sua risposta è stata inaspettata: «Netanyahu non è Ben Gurion», il primo ministro di Israele, e di preciso il suo fondatore, che dichiarò l'indipendenza il 15 maggio 1948 per formare uno Stato capace di avere un esercito per difendersi, anche se proprio quell'atto scatenò l'invasione di quattro Stati arabi, ognuno dei quali disponeva di armi migliori e più potenti di quelle della milizia ebraica clandestina, per la quale un fucile era importante e l'artiglieria un sogno impossibile. In quel modo, Ben Gurion ha ignorato gli avvertimenti americani e britannici secondo cui tutto sarebbe sfociato in un massacro, peraltro così a ridosso a livello temporale con la Shoah, perché non dubitava né dello spirito combattivo dei giovani del Paese né del proprio giudizio sul reale equilibrio di potere.

Quello che ho sentito è che gli strateghi hanno esaurito la pazienza con il primo ministro israeliano, che esita invece di lasciare che l'esercito finisca la guerra, che è proprio quello che voleva e vuole anche Biden, anche se non è ciò che desiderano i suoi collaboratori della Casa Bianca, molti dei quali sono stati incaricati da Obama, gli stessi che ora sognano un ritiro di Biden alla Convention del partito, con la conseguente candidatura di Michelle Obama come controfigura per un terzo mandato di Obama, con la concreta possibilità di un quarto.

Biden è ancora un sostenitore di Israele, ma non può più sostenere Netanyahu come suo eterno leader. Il calendario racconta come la premiership di Netanyahu sia in realtà abbastanza recente, essendo iniziata solo nel dicembre 2022, eppure moltissimi israeliani, così come molti politici negli Stati Uniti e in Europa, lo guardano con il particolare disgusto riservato ai leader che in qualche modo riescono a rimanere al potere per troppo tempo, nonostante la loro crescente impopolarità in patria e all'estero. E questo non solo per via del fatto che Netanyahu sia stato per la prima volta incaricato come primo ministro quasi trent'anni fa, nel 1996, per poi riconquistare la carica nel marzo 2009, prima di riottenerla di nuovo nel dicembre 2022 fino ad oggi, superando così tutti i suoi predecessori, ma soprattutto per quello che è accaduto durante il suo mandato più lungo, dal marzo 2009 al giugno 2021. È rimasto al potere per così tanto tempo contro ogni previsione, costruendo con successo tre coalizioni successive, solo che ognuna includeva più estremisti della precedente. La maledizione israeliana della rappresentanza proporzionale, che è ulteriormente aggravata da una soglia molto bassa del 3,25% nel conteggio dei voti, consente infatti agli

estremisti che hanno creato micro-partiti di vincere seggi e poi entrare nei governi, a meno che non siano tenuti fuori per questioni di principio. Questa è la ragione per cui molti israeliani si oppongono con costanza a Netanyahu: non lo considerano solo pragmatico, ma pronto a sacrificare qualsiasi principio morale pur di arrivare al governo. Non è stato sempre così, la sua metamorfosi è stata graduale. Tutto è cominciato con la sua prima coalizione, quando dal 2013 al 2015 governò con sei partiti moderati, tra cui ciò che rimaneva del partito laburista di Ben Gurion. Ma quando quella coalizione è fallita nel 2013, con l'uscita di scena dell'ex primo ministro Barak, Netanyahu non ha cercato nuove politiche, magari per intercettare un consenso più ampio. È rimasto aggrappato alla sua poltrona, mettendo insieme coalizioni sempre meno competenti, con micropartiti sempre più fuori sistema. È il preludio alla coalizione che adesso è al potere, che presenta ben tre partitini dichiaratamente estremisti. Attenzione, le loro farneticazioni non influenzano in alcun modo la pianificazione militare (anche perché i generali israeliani sono in genere di centrosinistra) ma le loro rocambolesche dichiarazioni sconvolgono i moderati in casa e sono utili strumenti per la propaganda anti-israeliana all'estero. Netanyahu, in altre parole, è così post-ideologico (una volta era un credente del Likud) che è disposto a portare qualsiasi parlamentare nel suo governo se questo gli permetterà di rimanere al potere. In che modo gli imbrogli politici di Netanyahu influenzano il suo processo decisionale militare?

La risposta è che questo militare un tempo tutto di un pezzo, uno che ha combattuto dozzine e dozzine di battaglie sul campo, nella guerra di Gaza non è un vero leader, lasciando questo ruolo al ministro della Difesa e ammiraglio in pensione Yoav Gallant. Qui si sta parlando di un ex capo della Marina che appena lascia il servizio attivo sceglie di andare a rilassarsi in Alaska come boscaiolo. È un uomo che nessuno può accusare di non avere principi morali. Si è schierato apertamente con i manifestanti che bloccavano le strade per opporsi alla riforma giudiziaria di Netanyahu. Gallant aveva insomma le sue ragioni strettamente militari per opporsi a un blitz a Rafah. Se Israele si fosse mossa secondo i piani prestabiliti l'avanzata verso Rafah sarebbe stata seguita dalla rapida imposizione di un cessate il fuoco. Gallant invece ha preteso la distruzione completa, con le loro linee di assemblaggio razzi e i rifugi per i combattenti, di tutti i tunnel di Gaza City e Khan Yunis. È così che quando il giorno della tregua sembrava arrivare la scoperta di nuove gallerie bloccava ogni cosa. Più e più volte la tregua è slittata al giorno dopo e a quello dopo ancora. Solo adesso Gallant sembra sentirsi pronto.

È per questo che Biden sta aumentando le sue pressioni su Netanyahu per entrare a Rafah e porre così fine alla guerra.

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