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Le Borse s'infiammano sulla scommessa della Brexit al capolinea

Continua l'euforia e Milano sale del 2,5% Anche le nostre imprese per il no all'uscita

Le Borse s'infiammano sulla scommessa della Brexit al capolinea

Ormai sono in all in, alla scommessa con cui tutte le fiches vengono puntate sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione europea. Ignorate le voci di chi ancora discetta sui disastri di un'eventuale Brexit, messa la sordina ai timori delle banche centrali, le Borse continuano a folleggiare da un rialzo all'altro. Dall'omicidio di giovedì scorso della deputata laburista, Jo Cox, i mercati hanno mostrato al mondo la faccia felice e cinica di chi ha cambiato umore grazie a un fatto di sangue. I sondaggi, rovesciati rispetto alla scorsa settimana, danno ragione al loro feroce pragmatismo. Anche se la percentuale degli indecisi non è del completamente rassicurante, c'è terreno sufficiente per far correre gli indici, in un rally che si presume sarà ancora più corposo da qui a giovedì prossimo, giorno del voto referendario.

Fa però un certo effetto vedere listini fino a una manciata di giorni fa fragili come castelli di carte, trasformarsi in roccheforti del rialzo. Piazza Affari ne è un esempio palmare: con il 2,54% recuperato ieri, ha riportato in attivo il bilancio dell'ultima settimana (+1%); e al bersagliatissimo settore bancario è arrivato altro ossigeno (+2,88%), seppur non ancora sufficiente a tappare le falle dell'ultimo mese (-8,8%). È un'euforia collettiva (le altre piazze del Vecchio continente hanno guadagnato oltre il 3%) che si misura anche con la temperatura dello spread tra Btp e Bund, crollata a 131 punti, ben venti in meno rispetto ai valori di allarme toccati appena cinque giorni fa.

È uno stemperarsi di tensioni incurante dei toni allarmati che ancora giungono da più parti. A qualcuno, infatti, continua a far paura la possibilità di un divorzio tra Londra e Ue, come per esempio il gruppo di top manager inglesi (dal calcio, all'industria automobilistica, a quella aerospaziale) dai quali è arrivato ieri un endorsement convinto al «Remain». Così come è assai probabile che stiano sventolando il bandierone «No Leave» anche le imprese italiane che esportano i loro prodotti verso il Paese britannico. L'ultimo rapporto della Sace parla chiaro: in caso di strappo con l'Europa, le nostre aziende subirebbero un danno nel 2017 sotto forma di una contrazione del giro d'affari con l'Inghilterra compresa tra il 3 e il 7%. Ovvero, circa 600-1.700 milioni di euro in meno di prodotti esportati. Ma, già da quest'anno, la Brexit potrebbe costare fra i 200 e i 500 milioni.

Poi, c'è forse l'aspetto più importante, ed è quello sollevato da Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: «Saremmo sciocchi se ignorassimo segnali di allarme come quello del referendum britannico. Ci sono più segnali di insoddisfazione rispetto all'Unione che arrivano da tutta Europa». Come dire: è ora di cambiare spartito per contrastare le spinte nazionalistiche ingrossate dalle politiche di austerity, da una burocrazia comunitaria sempre più invasiva, dalla mala gestio dei migranti.

Tusk chiede un cambiamento nel momento in cui il potere salvifico delle banche centrali sta venendo meno. A politiche monetarie fortemente allentate non ha finora corrisposto una ripresa decisa dell'economia reale. La Federal Reserve è in stallo, incapace com'è di alzare i tassi, mentre a quasi due anni dal «whatever it takes» con cui Mario Draghi poneva le basi per la difesa a oltranza dell'euro, la Bce è stretta tra i rischi di stagnazione e di deflazione.

Insomma: una situazione di instabilità con cui i mercati, passata la sbornia per lo scampato pericolo Brexit, dovranno tornare a confrontarsi.

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