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"C'è un alto rischio di perdite ma in Libia si deve intervenire"

Il generale Carlo Cabigiosu anticipa la nostra strategia bellica: «È il caos, non si può usare il fioretto. Senza nascondere il prezzo in vite di soldati italiani»

"C'è un alto rischio di perdite ma in Libia si deve intervenire"

Roma - «Se il governo decide di intervenire in Libia è indispensabile che renda chiaro all'opinione pubblica il costo in termini di perdite tra i nostri militari». Può sembrare una frase stonata da parte di un uomo in divisa e stellette come il generale Carlo Cabigiosu, ma è tutt'altro che un monito contro l'operazione: è un avvertimento sulla necessità di costruire il necessario sostegno politico intorno a una missione che si annuncia tra le più impegnative per l'Italia.

Generale, il nostro intervento è davvero necessario?

«Gli italiani devono capire che la situazione in Libia è grave e non può essere lasciata al destino. Bisogna che ci sia appoggio anche di fronte agli aspetti più sensibili».

Lei si riferisce alla possibilità di perdite umane.

«È un nodo cruciale per come si prospetta l'intervento. E c'è anche il rischio di quelli che vengono chiamati collateral damages, che ovviamente bisogna cercare di evitare. Ma a essere coinvolte saranno soprattutto le città della costa e la nostra Marina potrebbe giocare un ruolo importante. Ma non si può usare il fioretto, altrimenti non si conclude nulla. E una volta decise le regole d'ingaggio, l'Italia non potrà frapporre troppe riserve senza suscitare forti perplessità negli alleati, specie se avrà un ruolo guida».

Dobbiamo aspettarci perdite significative?

«Rispetto alle bande armate che potrebbero opporsi a un intervento di stabilizzazione del Paese abbiamo una grande superiorità tecnologica, però bisogna tener conto che loro, a differenza di noi, non hanno regole d'ingaggio, hanno una maggiore conoscenza del territorio e una volontà di combattere che non deve fare i conti con le perdite umane, visto che per i gruppi legati all'Isis, chi muore combattendo va in paradiso e può essere sostituito con nuovi reclutamenti».

C'è un'idea di come si potrebbe svolgere la missione?

«Ci saranno tre fasi, la prima guidata dall'intelligence con azioni mirate contro obiettivi di piccola entità ma significativi dal punto di vista strategico e adatti alle forze speciali. Nel mirino ci sarà chi si oppone a un cessate il fuoco temporaneo».

Ed è la fase attuale, cosa verrà poi?

«Arriverà un contingente che dovrà essere piuttosto numeroso e non solo italiano, ma anzi con la partecipazione di molte nazioni, auspicabilmente anche arabe, con l'obiettivo di neutralizzare le forze che si oppongono a un accordo politico che stabilizzi il Paese. Un'operazione simile a quelle viste in Somalia, Afghanistan e più recente in Ciad».

C'è una fase ulteriore?

«La terza, ancora più impegnativa, che dovrà mantenere sotto controllo il Paese ed evitare che guerriglia e atti di terrorismo facciano perdere gli obiettivi raggiunti. Per questa fase serve una massa di soldati molto superiore. Ed è importante che siano chiari gli obiettivi. Anche quelli politici sui quali ci dovrà essere accordo tra i governi che sostengono la coalizione».

Dal punto di vista militare si possono stimare le forze necessarie?

«Le indiscrezioni sulla presenza attuale di forze speciali italiane parlano di tre squadre da dodici uomini, il che vuol dire un impegno di un centinaio di uomini in tutto».

Per la fase di combattimento l'America ci ha richiesto pubblicamente 5.000 soldati da mandare sul suolo libico. È alla nostra portata?

«Siamo vicini al massimo del nostro potenziale. Negli anni passati siamo arrivati ad avere sette, otto anche novemila uomini impegnati nelle missioni. Ma bisogna tenere conto che ora abbiamo già 1.500 soldati in Libano, qualche centinaio in Irak, cui si aggiungeranno i 500 per proteggere la diga di Mosul. In più, come accadde ai tempi delle Guerre del Golfo, ai nostri militari potrebbe essere chiesto di presidiare anche gli obiettivi sensibili in Italia, ad esempio le centrali elettriche. All'epoca furono impegnati per questo altri sei-settemila militari. E poi ci sono militari impegnati anche in altri scenari, come in Val di Susa».

I tagli al bilancio delle forze armate degli ultimi anni possono avere conseguenze?

«Sì, ma non tanto sul numero degli uomini disponibili quanto sull'aggiornamento tecnologico e l'addestramento a fronteggiare un certo tipo di combattimento. Le faccio un esempio: se si riducono troppo il numero di ore di volo di sugli elicotteri d'attacco, poi l'addestramento deve ripartire da zero.

Non sono attività che puoi mollare e riprendere».

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