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"Capolavoro di squadra. È il segno che in Italia il calcio può crescere"

Il ct campione del Mondo 2006 elogia Mancini. "Che grande lavoro. E ha sempre dominato"

"Capolavoro di squadra. È il segno che in Italia il calcio può crescere"

Un rigore (l'ultimo di Fabio Grosso scelto nella cinquina come guidato da una intuizione divina) lo portò in cima al mondo nell'estate del 2006, un rigore (questa volta parato dal mago Donnarumma) ha riportato a Roma il titolo di campione d'Europa. Marcello Lippi si è goduto vacanze e il torneo continentale in tv da Ibiza dove ieri ha riannodato il filo azzurro con il successo di Mancini e dei suoi incredibili cavalieri. «Grandi, grandi, grandi. Grandi complimenti a tutti, a cominciare da Mancini per finire ai 26 della rosa di Wembley e a tutti i componenti dello staff» comincia così, con un entusiasmo che sembra quello intatto del 2006, la distribuzione della laurea honoris calcio dal ct che fece impazzire il mondo. Sono trascorsi 15 anni, una generazione è passata dal prato verde alle panchine, un'altra si è affacciata all'orizzonte e anche qui, forse, è il caso di prendere atto di un ricambio intervenuto in anticipo. «Il nostro mondiale, infatti, prese forma 24 anni dopo quello di Enzo Bearzot che fu il primo dell'era moderna. Adesso, senza tirare in ballo il precedente europeo del '68, sono passati solo 15 anni. Diciamo che stiamo migliorando e che possiamo a questo punto puntare a riscuotere altre future soddisfazioni».

Nel frattempo caro Lippi, torniamo al valore di questa impresa inattesa e imprevista secondo i più...

«Immaginare di riuscire - nel giro di tre anni - ad allestire un gruppo così compatto e completo, organizzato dal punto di vista calcistico, capace di imporre personalità e geometrie in faccia a qualsiasi rivale, tranne forse che con la Spagna, è qualcosa più di una semplice ambizione. Bisogna lavorare sodo per tutto il tempo a disposizione, parlare con i singoli calciatori, seguire la loro evoluzione nel campionato e nelle coppe, scoprire qualche talento nuovo in un torneo che è frequentato da un gran numero di stranieri. Pensare poi che, con i tempi ristretti a disposizione di un ct che conta su pochi raduni, sia stato possibile raggiungere questo traguardo prestigioso, offre la dimensione gigantesca del successo».

A leggere pagelle e graduatorie dell'europeo, spiccano due nomi tra i tanti che hanno meritato l'europeo: Jorginho e Donnarumma. Condivide?

«Sarebbe ingeneroso sceglierne due e dimenticare tutti gli altri. Perché questo è stato il trionfo del gruppo, del collettivo che non è un modo di dire banale. È un giudizio meditato. E non solo per il gran numero di calciatori utilizzato lungo le sette partite dal ct ma perché se si dovesse scegliere, partita dopo partita, il migliore faremmo un elenco molto lungo».

Che cosa ha aggiunto la finale con l'Inghilterra al luccichio di quella coppa?

«A dire il vero ho visto, nella finale, l'Inghilterra condizionata in modo vistoso dalla responsabilità di dover vincere, quasi schiacciata invece sospinta dall'entusiasmo dei 70 mila di Wembley che invece di risultare una risorsa, alla fine sono diventati, un freno. Un freno inibitore. Mi ha colpito, in negativo, il fatto che loro avessero un solo schema a disposizione: rilancio lungo del portiere. Degli azzurri invece mi ha impressionato la lucidità con la quale, smaltito lo smarrimento iniziale per quel gol a freddo dopo 2 minuti, hanno ripreso a fare calcio alla loro maniera, dominando la scena e il campo per 120 minuti alla fine. Perché poi, nonostante i cambi successivi di sistema di gioco e di pedine in attacco, gli inglesi non sono più riusciti a sorprenderci con quei fenomeni che avevamo in difesa. Anche sul piano fisico, alla fine, gli azzurri hanno resistito senza cedimenti. E venivano dai supplementari con la Spagna non da una passeggiata di salute».

Proviamo alla fine a fare una sintesi: perché la Nazionale ha vinto l'europeo tre anni dopo il disastro della mancata qualificazione mondiale?

«Perché, da quello che sento attraverso le interviste degli azzurri, Mancini ha cominciato dal primo giorno del suo mandato a fissare un traguardo molto ambizioso. Poi ha scelto gli uomini adatti oltre all'idea di gioco alle esigenze di un gruppo che deve sentirsi squadra tutto l'anno e non solo nei pochi giorni di ritiro. Quindi ha trasferito a ciascun componente di quel gruppo il proprio ruolo e la propria missione.

Ne è venuto fuori questo capolavoro che ha ridato smalto a tutto il calcio italiano».

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