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Cento giorni all'uscita dalla Ue. Ma la maggioranza è appesa un filo

Numeri risicati ed europeisti arrabbiati. La carta americana

Cento giorni all'uscita dalla Ue. Ma la maggioranza è appesa un filo

Cento giorni. Tanti ne avrà fino al 31 ottobre il neopremier Boris Johnson per compiere l'impresa: realizzare la Brexit, costi quel che costi, anche se l'addio all'Unione europea ha già bruciato due capi di governo e una cinquantina fra ministri e sottosegretari. «Energizzeremo il Paese, crederemo in noi stessi. Come un gigante addormentato, ci alzeremo e faremo esplodere le corde di insicurezza e negatività» ha detto alla vigilia del suo ingresso a Downing Street il nuovo leader dei Tory, 55 anni, biografo di Winston Churchill, nemico del politically correct, bandiera del liberalismo contro il nanny-State, lo Stato-balia, che tutto vuole vedere e controllare come una tata ossessiva. «Se siamo stati capaci di portare l'uomo sulla luna, possiamo anche risolvere il problema del confine irlandese», spiegava nei giorni scorsi, alla sua maniera, in modo spiccio, facendo leva su ottimismo e orgoglio nazionale.

È un uomo delle élite, Boris - ventesimo primo ministro che arriva dal college di Eton, il 28esimo dall'Università di Oxford - ma abituato a viaggiare controcorrente, a sdrammatizzare, a metterci quel po' di ironia che è l'essenza dell'anima british (del rivale sconfitto, Jeremy Hunt, ha detto: «È stato fonte di idee eccellenti. Le ruberò tutte e subito»). Il suo atteggiamento sopra le righe gli ha anche regalato, insieme alle sue gaffe, la nomea di «pagliaccio» ma per la base conservatrice è una boccata d'ossigeno dopo tre anni di Maybot, come è stata ribattezzata la premier Theresa May per il suo approccio freddo al limite del robotico. Colto, eccentrico ed esagerato al punto da poter vantare, fra gli ex allievi del folle Bulligdon Club di Oxford, pure qualche ora di prigione nel 1987 - parola sua - dopo l'ennesima serata alcolica in cui un vaso di fiori è volato fuori da un ristorante.

Eppure nessuna delle sue qualità sarà garanzia di salvezza dal buco nero che è ormai la Brexit. La promessa di un massiccio taglio alle tasse (10 miliardi), la garanzia di una strenua difesa del liberalismo («che ha portato nei Paesi occidentali prosperità a livelli mai immaginati dalle generazioni precedenti»), il suo passato di successo come sindaco conservatore della Londra progressista (due mandati) fino al lavoro al Foreign Office (per il quale è stato tuttavia definito il peggior ministro degli Esteri britannico), non gli regaleranno la sopravvivenza dal cappio che finora è stata la Brexit. Contro Boris remano ancora i numeri. Una maggioranza che potrebbe ridursi a un solo deputato se i Tory perderanno, il primo agosto, anche l'elezione suppletiva per un seggio conteso. Senza i dieci nord-irlandesi del Dup (che al governo danno appoggio esterno e hanno già chiesto un miliardo di sterline in più), Boris avrebbe la maggioranza più esile dai tempi del governo di John Major, negli anni Novanta. Una squadra fragile e affatto compatta, con molti deputati conservatori convinti che un'uscita senza intesa con la Ue sarebbe una catastrofe. È un esercito pronto all'ammutinamento, per un leader costretto a lavorare in un clima di rabbia, con gli elettori europeisti allibiti dall'ascesa di un premier scelto dallo 0,3% degli elettori (in tutto 92mila voti degli iscritti al Partito conservatore), con un Parlamento contrario al No Deal e i sondaggi che riconoscono il cambiamento (per il 52% sarà un premier «completamente nuovo») ma al 58% lo reputano «inaffidabile».

Eppure Johnson ha dalla sua qualche cartuccia. Per cominciare, ha voluto dare un segnale di distensione e unità nominando il Remainer Mark Spencer capogruppo dei Conservatori (ma c'è chi trema per l'arrivo del falco Jacob Rees-Mogg al governo). Nel frattempo, Boris è già riuscito ad ammansire Nigel Farage, kingmaker della Brexit, che ora si offre di collaborare e potrebbe tornare utile in caso di elezioni anticipate. Infine c'è il ruolo degli Stati Uniti nella partita con Bruxelles. «Johnson è popolare perché è visto come il Trump britannico», dice The Donald congratulandosi. «È una Thatcher dai capelli scompigliati», spiega il repubblicano Newt Gingrich.

E chissà che il timore che Londra finisca nelle braccia di Trump non convinca la Ue a qualche concessione.

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