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Così stiamo perdendo la guerra per il petrolio

Descalzi rivela la posta in palio: con la Libia divisa in tre parti a noi solo briciole

Così stiamo perdendo la guerra per il petrolio

Riccardo PelliccettiAddio bel suol d'amore. Dopo ottant'anni il nostro matrimonio con la Libia è finito. Ma non è stata lei a tradirci e a voltarci le spalle. Siamo stati noi italiani, incapaci di curare i nostri interessi nazionali. E ora la situazione è sempre più complicata. Si allontana il fallimentare piano dell'Onu, a cui il governo Renzi si era aggrappato con le unghie, e diventa sempre più concreto il piano B, cioè l'alternativa che i nostri alleati hanno scelto per noi: dividere in tre la Libia e affidarne ognuna a un tutor europeo. A poco servono gli appelli a preservare l'unità del Paese se non scendiamo in campo da protagonisti a difendere la nostra zona d'influenza. Anche Claudio Descalzi, amministratore delegato dell'Eni, unico soggetto che ancora si occupa di politica estera in Italia, ha ribadito che «la Libia è un Paese unito e unito deve rimanere. L'unità è importante anzitutto per i libici, ma anche per la stabilità della regione. Uno smembramento sarebbe devastante». Ed è un intervento militare senza un governo libico di unità nazionale che preoccupa maggiormente, soprattutto perché significherebbe la spartizione della Libia e la fine della nostra posizione privilegiata. Un governo però che ancora non esiste. Il parlamento di Tobruk non ha ancora votato la fiducia al premier incaricato, il voto viene rimandato da settimane e il governo di Tripoli ha già detto che non accetterà mai alcun intervento militare straniero. E tutto questo non fa che accelerare il piano alternativo, il più indigesto e dannoso per il nostro Paese.L'Italia è politicamente passiva da quando è caduto Gheddafi e cerca di galleggiare per non andare a fondo. Eppure fino a pochi anni fa le idee erano chiare. Poco importava se si doveva scendere a patti con un dittatore (i nostri amici e alleati fanno di peggio), avevamo garanzie sulle risorse strategiche, sull'immigrazione, sulla stabilità della sponda sud del Mediterraneo. Oggi sembriamo smarriti, rintronati, pendiamo dalle labbra degli altri e aspettiamo che ci dicano cosa fare. In poche parole, non abbiamo alcuna cura dei nostri interessi nazionali. A differenza degli alleati, il cui scopo prioritario è invece fare i propri interessi nazionali.E dopo aver perso credibilità internazionale un mese dopo l'altro, dal caso marò all'immigrazione, dalla Siria al terrorismo jihadista, ora perdiamo una delle poche zone d'influenza alle porte di casa. Siamo consapevoli della pochezza della nostra classe politica, ma oggi rimpiangiamo gli Andreotti e i Craxi, dei giganti a confronto. Avevano una visione strategica e politica. Adesso ci ritroviamo il caos a pochi chilometri da casa, in una regione in cui abbiamo avuto voce in capitolo, sotto tutti i profili, per 80 anni. Ma il governo ha deciso di buttarsi a mare senza saper nuotare, sperando che l'amico di turno gli lanci un salvagente. Lo farà. Lo farà di sicuro. Ma il prezzo da pagare sarà alto. Ci ritroveremo una Libia divisa in zone d'influenza, un Paese spacchettato dove all'Italia verrà assegnata la Tripolitania, alla Gran Bretagna la Cirenaica e alla Francia il Fezzan. Insomma, avremo le briciole e dovremo pure elemosinarle. E pensare che un tempo era Roma a condizionare la politica nel Mediterraneo. Ma ormai siamo solo dei maggiordomi, utili per servire senza mai mettere in discussione il padrone.

Che può metterci alla porta senza neppure il preavviso.

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