Controcorrente

Dimmi come parli, ti dirò che politico sei

Oggi i politici parlano come mangiano. Cioè male. Si è passati dal linguaggio colto a quello popolano. E gli effetti si vedono...

Dimmi come parli, ti dirò che politico sei

In passato il linguaggio della politica era eccessivamente tecnico, colto e (volutamente) esclusivo. Con la seconda Repubblica è diventato più accessibile, inclusivo e sempre più vicino alla gente. Ma in che modo è arrivato a scadere nella volgarità del Vaffa, nei selfie con la felpa, nei post con gli errori di sintassi e nella lingua virale popolaresca? Leviamoci dalla testa che la colpa sia del web e della logica dei tweet. Non si tratta solo della difficoltà di condensare il messaggio in poche battute. Dietro all'impoverimento dei discorsi dei politici c'è un disegno preciso, che va ben oltre la volontà di essere vicini alla piazza e empatici con l'elettore. E soprattutto che non ha nulla di casuale, anche se ha la forma di un post scritto di getto dal telefonino. «Prima si cercava di parlare in pubblico meglio di come si mangiava - sintetizza Vittorio Coletti, linguista all'università di Genova e consigliere dell'Accademia della Crusca - Oggi ci si vanta di parlare in pubblico come si mangia. Sottinteso che si mangia male». Va bene abbandonare la superiorità elitaria di una volta per fare in modo che l'elettore si rispecchi nei proclami, ma il livello stilistico si è abbassato parecchio. Troppo, a detta dei linguisti italiani che spiegano come la forma sia anche sostanza. E purtroppo anche quella è precipitata, riducendo i contenuti politici a meri slogan che puntano più ad aizzare gli animi e distruggere che a mediare e costruire.

Addio ideologie

Dalla prima alla seconda Repubblica, la comunicazione viene del tutto ribaltata. I protagonisti non sono più i partiti e le ideologie ma è la singola persona. «Lo capiscono bene sia Berlusconi sia Renzi - commenta Coletti - che legano alla loro faccia la garanzia del progetto che propongono». Entrambi parlano in prima persona e non si tirano indietro quando c'è da mostrare la propria vita privata. «Anzi, la messa in mostra dell'intimo è fondamentale nelle loro campagne elettorali. Se ci si pensa, nel passato sarebbe stato impensabile raccontare cosa faceva Nilde Iotti nel tempo libero. Certo, il rischio boomerang di una scelta linguistica del genere è dietro l'angolo, come si è visto».
Il politico non vive più nell'Olimpo ma è raggiungibile con un messaggio sui social in qualsiasi momento. Renzi twitta e posta all'ordine del giorno per cercare consensi in un terreno un po' più fresco rispetto a quello della vecchia guardia del centrosinistra. Ma il numero uno in questo è Salvini, inseparabile dall'Ipad anche durante le dirette tv. Guai a stare in silenzio troppo a lungo, un messaggio in rete va lanciato costantemente. E allora ecco i post del vice premier che gioca a flipper o che permette che circoli una sua fotografia tra le lenzuola con la sua ex fidanzata. Nulla è casuale: Salvini usa le tecniche comunicative degli influencer, si nutre delle polemiche della rete e spesso lancia provocazioni create apposta per crearsi nemici e fomentare dibattiti (ad esempio con la proposta del censimento dei rom). Il leader leghista capisce una cosa fondamentale: bisogna parlare la lingua di tutti. Il 28% degli italiani fa fatica a comprendere testi semplici. E lui che fa? Li fa semplicissimi.

«I politici moderni, da Berlusconi in poi - continua Coletti - decretano la fine del linguaggio tecnico della politica. Semplificano i contenuti, facendo passare il messaggio che con le loro parole chiare non vogliono ingannare. Ma attenzione, rendere più facile un discorso non è sinonimo di verità e di affidabilità». Berlusconi usa il gergo del marketing, come se parlasse di un prodotto da vendere e usa spesso la metafora del miracolo, per confezionare un ottimismo rassicurante. Renzi punta allo svecchiamento, alla rottamazione e per farlo usa toni da meeting aziendale che spesso si rifugiano in termini inglesi che sanno di nuovo. E così trasforma la festa dell'Unità in Democratic party e personalizza tutto, compreso il referendum che gli è fatale. Le parole sono sempre auto elogiative e la parola più utilizzata da entrambi è io.

La regola del vaffa

La vera rivoluzione-distruzione linguistica la fanno i grillini, con un estremismo dissacrante: non parlano più di accordi ma di inciuci, non più di cambiamento ma di colpo di stato. Scardinano concetti e parole, compresa l'idea di destra e sinistra. Per azzerare le distanze si fanno chiamare Beppe e Gigi, come gli amiconi di scuola (spezzando definitivamente la tradizione degli onorevoli) e ribattezzano i rivali politici, come mai sarebbe accaduto in passato. Berlusconi diventa lo Psiconano, Alfano il Maggiordomo, Bersani è Bersanetor. Non sono solo i toni della satira: il progetto è più architettato. È la politica del Vaffa, è il linguaggio della rabbia che tutto può comunicare fuorché ottimismo e voglia di costruire. Il gergo diventa di colpo militaresco. Le parole più utilizzate da Grillo sono: distruggeremmo, elimineremo, guerra. «È questo il momento in cui si passa da un linguaggio politico popolare a una dimensione volgare, fatta di aggressioni verbali - spiega Coletti - Ad esempio, deformare i nomi degli avversari equivale a deformarne le loro idee, a scardinare ogni forma di rispetto». Ma accade di più: non solo le parole ma anche i contenuti si involgariscono e restano più in superficie. Innanzitutto perché non c'è più un unico riferimento, un volto: l'io di Renzi e Berlusconi diventa un ego eccessivo, da deridere. Il protagonista diventa la Rete, la piattaforma, espressione di un fantomatico e astratto popolo che, ci dice Grillo, siamo noi, è la nostra identità. O forse contribuisce a disperderla. Inoltre «la politica non si dà più il tempo di pensare ma si gioca tutto sul consenso immediato». Pur di arrivare prima di tutti nel commentare le notizie, i politici danno in pasto al popolo della rete slogan molto efficaci ma pericolosi per ciò che non argomentano. E per tenere alta l'attenzione creano polemiche settimanali e cercano in continuazione nuovi nemici contro cui scagliare le ire degli elettori. Nel tritacarne finiscono in modo strumentale l'Europa, Macron, i vecchi partiti, le multinazionali. Chi più ne ha più ne metta.
«L'impoverimento a cui assistiamo - sostengono i linguisti che studiano i testi dei leader politici - è mentale prima che linguistico. Bisognerebbe tornare a una lingua meditata, che pensa a quel che dice prima di postarlo» e prima di spettacolarizzare un concetto vuoto.

Il popolo bue

E noi elettori, che possiamo perfino mandare messaggi web ai nostri leader di riferimento, che parte abbiamo? Anche il nostro ruolo si può sintetizzare con una parola. O meglio con un equivoco: populismo. Nel suo libro «Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica», il linguista Giuseppe Antonelli spiega che «nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue». E così il popolo diventa «qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogni e istinti primari. Da questa idea di popolo discende un'eloquenza volgare, rozza, semplicistica, aggressiva. L'epoca in cui viviamo si definisce post-ideologica. È il tempo della post-politica e della post-verità. Ovvero (cambiando l'ordine degli addendi la somma non cambia) politica e verità da post. Parole e slogan virali che fanno il giro della rete propagandando spesso opinioni su fatti mai esistiti. Quello a cui ci si riferisce con questa sfilza di post è, in realtà, un pensiero prepolitico. E la lingua che lo veicola, più che una neolingua, è una veterolingua che invece di mirare al progresso vorrebbe farci regredire, riportandoci agli istinti e alle pulsioni primarie. Indietro, o popolo!».
In sostanza, si innesca una continua corsa al ribasso. «Un circolo vizioso - spiega Antonelli - che toglie al discorso politico qualunque forza propulsiva, qualunque dinamismo. Non una risposta ai bisogni degli italiani, ma pura ecolalia: ripetizione ridondante. Cosi le parole stanno paralizzando la politica». E allora mettiamoci in testa che un conto è azzerare le distanze e scendere dal podio, un conto è abbandonare giacca e cravatta e comunicare con la felpa addosso.

Un altro conto è pensare al politico di turno come a «uno di noi» che abbiamo perfino tra l'elenco degli amici di Facebook, ma che si rivela una sorta di cavallo di Troia che ci svuota la testa, ci leva la capacità di pensare e ci stuzzica i più atavici istinti.

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