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Erdogan non ha più freni e punta dritto al sultanato

Dopo la legge anti-opposizione il presidente turco nomina premier un suo fedelissimo oltranzista

Erdogan non ha più freni e punta dritto al sultanato

Ormai da tempo la Turchia è in preda a una deriva islamico-autoritaria, con il presidente Erdogan che, senza averne i poteri costituzionali, comandava a bacchetta il suo primo ministro Davutoglu mentre preparava una riforma che gli conferisse anche formalmente il potere assoluto cui ambisce. Dopo gli ultimi eventi, si può cominciare a parlare addirittura di deriva nazista, o nel migliore dei casi di un salto indietro di un secolo e un ritorno all'impero ottomano, con Erdogan nella parte di onnipotente sultano e il primo ministro in quella di docile Gran Vizir. In questo fine settimana, il processo di involuzione ha infatti subito una ulteriore accelerazione: il partito islamico Akp è riuscito a fare approvare, con l'aiuto dell'ultradestra nazionalista che gli ha fornito i voti mancanti per i 2/3, una riforma costituzionale che abolisce tout court l'immunità parlamentare dei deputati cui una magistratura - ormai completamente asservita al potere esecutivo - ritenga di imputare un qualche reato. Questo significa che ben 50 dei 59 deputati del Partito democratico popolare curdo (Hdp), con in testa il suo popolare leader Selahattin Demirtas, già accusati di crimini gravissimi come terrorismo e complicità con i ribelli del Pkk, potranno essere adesso espulsi dal Parlamento, arrestati, processati e incarcerati. Una volta sbarazzatosi di loro, Erdogan sarà in grado di sciogliere la Camera, indire nuove elezioni (le terze in un anno) con l'unico vero partito di opposizione decapitato, ottenere per l'Akp quella maggioranza assoluta che gli è sfuggita l'ultima volta e portare finalmente a compimento l'agognata trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale, con un capo di Stato dai poteri quasi illimitati e privo di controlli.

Ad aggravare ulteriormente la situazione, due settimane fa il Sultano ha spinto alle dimisssioni il primo ministro Davutoglu, che dopo averlo fedelmente servito per diciotto mesi cominciava a dare qualche timido segnale di autonomia, e domani al Congresso del Partito lo sostituirà con il sessantenne ministro dei Trasporti Bihali Yildirim, suo fedelissimo, un musulmano così devoto, che anni fa rifiutò una cattedra al prestigioso Politecnico di Ankara perché non sopportava la vista di ragazzi e ragazze che sedevano insieme nella stessa classe.

I curdi hanno già definito il voto di venerdì «un golpe», appellandosi al Parlamento europeo. É probabile che la latente guerra civile che infuria già da mesi nel Sud-est del Paese, con centinaia di morti e interi villaggi rasi al suolo, si intensificherà ulteriormente. Finita ogni possibilità di ogni trattativa politica, il Pkk non potrà che intensificare la rivolta. Ma gli ulteriori passi verso la liquidazione dello Stato laico di Ataturk stanno mettendo in grave imbarazzo anche la Ue, che in marzo, sotto la spinta tedesca, aveva concluso con Erdogan un patto molto discusso. In cambio di uno stop al flusso dei profughi dal Medio Oriente verso la Grecia e all'accoglimento di quelli respinti per mancanza di requisiti, Bruxelles ha promesso al Sultano 6 miliardi di euro, l'abolizione del visto per i cittadini turchi e una accelerazione delle trattative per l'adesione di Ankara all'Unione. Come una Ue che si professa paladina della libertà e dei diritti umani potrà continuare a trattare con il «nuovo» Erdogan che peraltro ha già respinto la richiesta di cambiare la legge antiterrorismo, sospendendo di fatto l'applicazione degli accordi rimane un mistero. Infatti, ha già preso corpo l'idea di denunciare il patto, rallentare il flusso dei migranti dalle coste turche con una maggiore presenza navale in Egeo e trasferire i 6 miliardi promessi ad Ankara ad Atene, perché costruisca campi di accoglienza adeguati. Anche l'abolizione dei visti è ormai improbabile e l'ingresso nella Ue considerato fantapolitica.

Rimane il fatto che la Turchia è tuttora membro della Nato e che gli americani la giudicano un elemento indispensabile nella partita mediorientale.

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