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"Il futuro non è cinese. Il mondo nuovo nascerà nella libertà"

L'ex tecno-consulente di Obama: "Dove c'è un regime non può emergere la creatività"

"Il futuro non è cinese. Il mondo nuovo nascerà nella libertà"

A che cosa pensa Alec Ross quando pensa all'innovazione? «In una parola, alla digitalizzazione. Il mondo è sempre più un codice informatico, zero-uno: e credo che niente l'abbia cambiato di più, per quello che ho visto nei miei 44 anni di vita». Quarantaquattro anni in cui Alec Ross da Charleston, West Virginia è arrivato al centro del potere: prima come consulente tecnologico per la campagna di Obama nel 2008, poi come consigliere per l'innovazione di Hillary Clinton, all'epoca in cui era Segretario di Stato (un lavoro grazie al quale Ross ha viaggiato quasi ovunque, e conosciuto quasi chiunque...). In mezzo, una laurea in Storia medievale e due anni in Italia, da bambino coi nonni (ha antenati abruzzesi) e durante l'università, a Bologna: è stato allora che ha cominciato «a pensare all'innovazione scientifica e tecnologica come alla chiave per vivere una vita più lunga, più felice, più sana e più ricca», come racconta nel suo libro, Il nostro futuro, bestseller in America (Feltrinelli). In Italia è anche in questi giorni, fra Cernobbio e Mantova, passando per il luccicantissimo Hotel Gallia di Milano.

Senta, in Italia, quando si parla di innovazione sembra subito qualcosa di astratto...

«Eh. Lo so. Per innovazione io intendo la creazione di un prodotto o un processo che consenta un rinnovamento concreto. Spesso piccole cose: nuovi modi di fare agricoltura e allevamento, di rendere i porti più efficienti. È fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima e portarla nel mercato».

Oggi lei che cosa fa?

«Quattro cose: ho scritto questo libro; aiuto Hillary Clinton nella campagna, nelle politiche per l'innovazione e la tecnologia; insegno alla John Hopkins; sono il coach di sette amministratori delegati, giovani ingegneri brillanti a cui insegno come essere leader».

Che consigli ha dato alla Clinton per le elezioni?

«Tecnologia e innovazione creano ricchezza, ma non necessariamente per tutti. La disuguaglianza aumenta. I miei consigli sono su come estendere i benefici a quante più comunità possibile».

Si può fare?

«Non ho radici ricche, io... Facevo il bidello di notte, pulivo i pavimenti dopo i concerti. Credo che il talento sia universale, ma le opportunità no. La mia ossessione è creare opportunità all'interno del mercato: non una redistribuzione del reddito, bensì fare in modo che ciascuno possa competere».

La domanda che le è posta più spesso è...

«... dove sarà al prossima Silicon Valley? Non c'è».

Perché?

«La Silicon Valley è il prodotto di trilioni di dollari di ricchezza e investimenti e di vent'anni di ricerca e competenze su internet. Nessun paese può ricrearla. Perciò dico: non fissatevi su quello, cercate di essere i primi in ciò che è veramente nuovo. Non sarà un monopolio: ci sono altri dieci-venti centri emergenti».

Per esempio?

«Londra per la genomica, Stoccolma nei cellulari, Singapore nei servizi pubblici, Tel Aviv per la cybersicurezza, Corea del Sud e Giappone nella robotica».

Niente Cina?

«Potrebbe... Ma il Ventunesimo secolo è un'epoca terribile per i maniaci del controllo. Non c'è innovazione senza creatività, e non c'è creatività in un ambiente di supercontrollo. La divisione oggi è fra paesi aperti e chiusi».

Niente più destra e sinistra?

«Sì, certo. Però è un binario meno descrittivo della realtà. Pensi al Movimento Cinque stelle: è destra o sinistra? È più anti establishment, come Trump. O alla Brexit: è stata più un aperto contro chiuso. Non è che gli Usa siano perfettamente aperti, ma credo che la tensione fra apertura e chiusura sia la più grande battaglia in corso, specialmente per la Cina. Perché più sei autoritario, più è difficile innovare».

Altri fattori chiave?

«L'accesso, fin dall'inizio, a capitali di rischio elevati. La Silicon valley è diventata quello che è, anche perché ogni buona idea riesce a trovare un finanziatore. Se perdi i soldi, chi se ne importa. Un venture capitalist sa che, su dieci investimenti, sette falliranno. Questo è il problema con l'Italia: non succede, sia per la regolamentazione eccessiva, sia per la paura della bancarotta. E poi c'è la questione dell'età».

I giovani.

«Quando sono a un tavolo con degli imprenditori, in Italia sono sempre il più giovane. Nella Silicon Valley sono il più vecchio. In Italia c'è una cultura gerarchica».

Come si cambia?

«Cambiando la cultura. È quello che fanno i leader. Non imponendo regole, ma comportandosi da leader. Facebook è stata fondata da un ragazzo di 19 anni, Microsoft da un ventenne. Qui non solo non avrebbero avuto i soldi: non avrebbero avuto nemmeno l'appuntamento per chiedere i soldi».

Il mestiere più difficile?

«Quello di genitori. In futuro serviranno sempre più abilità per fare business in modo globale. Ho tre figli di 13, 11 e 9 anni. I primi due studiano già cinese. Tutti dovrebbero imparare le lingue straniere e il linguaggio dell'informatica, perché il codice sarà l'alfabeto in cui il futuro sarà scritto».

Eric Schmidt di Google dice che serviranno le capacità analitiche. Che significa?

«I leader di domani devono combinare conoscenze tecniche e umanistiche. Non ci sono solo tecnologia e scienza: servono capacità comunicative, intelligenza emotiva, psicologia comportamentale, economia».

In una persona sola?

«Come me... O Mark Zuckerberg: molti pensano che sia tutto scienza informatica, ma è un grande esperto di psicologia comportamentale. Eric Schmidt ha un PhD in Scienze informatiche, ed è un esperto di intelligenza emotiva».

Su quali aree deve concentrarsi l'Italia per innovare?

«La moda e il design, e l'agricoltura. Potreste diventare la patria dell'innovazione in questi settori, grazie ai Big data».

Una tecnologia che sarà obsoleta?

«Fra vent'anni, il 95 per cento delle auto e dei camion sarà automatizzato. Le persone guideranno solo per divertirsi».

Hillary Clinton vincerà?

«Sì».

E lei che cosa farà?

«Non ne ho idea... Continuerò la mia vita.

Voglio solo che vinca».

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