Il giornalista Mussolini

Abbasso il Parlamento, un bubbone pestifero

Abbasso il Parlamento, un bubbone pestifero

Mentre il Paese attende di giorno in giorno, con ansia sempre più spasmodica, una parola da Roma, da Roma non ci giungono che rivoltanti storie o cronache di non meno rivoltanti manovre parlamentari. La vigilia del più grande cimento d'Italia è contrassegnata da questo rigurgito estremo di tutte le bassezze della tribù medagliettata. Sdegno e mortificazione si alternano negli animi nostri. Questi deputati che minacciano «pronunciamenti» alla maniera delle repubblichette sudamericane, questi deputati che vanno a scuola e a pranzo dal principe di Bülow, questi deputati che diffondono - con le più inverosimili fantasticherie ed esagerazioni - il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, mercatori, ciarlatani, proni ai voleri del Kaiser; questi deputati che dovrebbero essere alla testa della nazione per incuorarla e fortificarla, invece di deprimerla e umiliarla com'essi fanno; questi deputati dovrebbero essere consegnati ai Tribunali di guerra.

La disciplina deve cominciare dall'alto, se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, io sono sempre più fermamente convinto che per la salute d'Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all'ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo.

C'è da rabbrividire al pensiero che si trovano, in questo momento, a Roma, più di duecento deputati. E costoro tramano, brigano, ciarlano: non hanno che un pensiero: conservare la medaglietta; non hanno che una speranza: quella di entrare - sia pure come la quinta ruota del carro - in qualche «combinazione» ministeriale. Intanto, coll'ostentato ritorno di Giolitti a Roma, noi siamo costretti ad occuparci della «situazione parlamentare». Siamo, cioè, ricondotti alle nostre miserie. E triste!

I colloqui di ieri che cosa significano? Non si sa. Buio pesto, ancora. Noi siamo dei minorenni, degli interdetti. Però, è sintomatico il linguaggio dei giornali austriacanti, a cominciare dalla cirmeniana Stampa di Torino. Erano molto abbacchiati i neutralisti clerico-moderati, l'altro giorno, quando il Consiglio dei ministri decise di prorogare al 20 corrente la riapertura della Camera, perché interpretavano il fatto come il vero e decisivo squillo di guerra. Sono passati quattro giorni e nuove speranze risorgono nei cuori degli incarogniti triplicisti. Secondo loro l'Austria ci farebbe -adesso - delle concessioni tali da accontentare il più frenetico degli imperialisti italiani. Non si precisa nulla, ma si afferma che l'Austria è disposta a darci il «parecchio» di giolittiana invenzione e qualche cosa di più. La possibilità di un accordo non sembra, dunque, definitivamente dileguata: nei circoli politici e parlamentari cui si ispira la Tribuna, ad esempio, si invita il Governo alla prudenza e alla saggezza, cioè all'accordo cogli Imperi Centrali.

Sembra però che ci sia un ostacolo insormontabile: il già avvenuto accordo colla Triplice Intesa. Ma i neutralisti inveterati hanno già una soluzione pronta per «bere» l'ostacolo: Sonnino fa come Venizelos e si dimette insieme col Ministero. Il nuovo Ministero - capeggiato, naturalmente, da Giolitti - scinde i patti stipulati colla Triplice Intesa e si rimette a «negoziare» coll'Austria-Ungheria. Questi progetti sono semplicemente criminali. Il «parecchio» che l'Austria sembra incline a concederci in questo momento è un vero e proprio agguato. Sciogliendoci dalla Triplice Intesa, noi saremmo tremendamente isolati ed è molto probabile che invece del «parecchio» ci capiterebbe sul capo la rappresaglia degli austro-tedeschi. Sarebbe il castigo meritato del nostro doppio ed equivoco atteggiamento mercantile.

Tutto ciò che qui si è esaminato, è il portato logico e fatale del regime di neutralità. Ci siamo imbastarditi. Demoralizzati. Se la neutralità dovesse durare ancora qualche tempo, il popolo italiano diverrebbe incapace di reggere la prova delle armi. Non si tiene un popolo - per ben dieci mesi - sospeso fra la neutralità e l'intervento, e nelle tenebre più fitte.

E tempo di parlare! Perché si ritarda? Lo stato di guerra fra noi e gli austro-tedeschi esiste già. La fuga dei tedeschi che ci liberano dalla loro molesta presenza, l'esodo degli italiani che abbandonano precipitosamente la Germania, sono i dati di fatto della nuova situazione. La guerra «virtualmente» è già dichiarata. E allora che cosa si attende, prima di porre in campo l'esercito d'Italia? Dobbiamo dunque mettere nel novero delle possibilità, quella di un tradimento perpetrato all'ultima ora? Dobbiamo dunque credere che poche decine di medagliettati tedeschi d'Italia, siano capaci di fermare - con una miserabile mossa di «corridoio» - il corso dei nostri destini? E se ciò è assurdo, perché il Governo non tranquillizza una buona volta gli italiani, mettendoli al corrente della situazione? Siamo cittadini o sudditi?

11 maggio 1915

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