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Quella grandeur dimezzata dal politically correct

Una politica estera schizofrenica e una gestione interna confusa hanno trasformato l'ex impero coloniale in un bersaglio indifeso

Quella grandeur dimezzata dal politically correct

L a douce France si scopre amara ed è il momento di chiedersi il perché. L'attentato nell'Isère, con il suo truce contorno di vittime, bandiere nere dell'Isis, una testa mozzata imbrattata di scritte in arabo e infilzata nella recinzione della fabbrica, richiama alla mente la mattanza di Charlie Hebdo e rimette in fila ordinata nel tempo fatti di sangue minori ma non meno esemplari: automobili lanciate come proiettili su passanti; esecuzioni sparse a opera di singoli cani sciolti di un terrorismo politico islamista con forti venature psicopatologiche e oscure connivenze poliziesche; banlieues in fiamme per improvvise e repentine tensioni, scontri, risentimenti razziali. Un Paese con un prestigioso quanto discusso passato coloniale, e un presente altrettanto prestigioso e discusso di accoglienza e integrazione, si accorge sempre di più che la realtà non è come la politica vorrebbe fargli credere, che laicità e società multiculturale non necessariamente vanno insieme, che l' appeal occidentale non è più un valore aggiunto, tanto meno se resta un miraggio frustrante...

Dalla guerra di Algeria a oggi, la politica estera francese ha avuto l'andamento schizofrenico di chi, avendo avuto un impero, non si è mai rassegnata all'idea di non essere più una grande potenza. La Libia, soprattutto, e in parte il Mali, sono gli ultimi esempi di un machismo tanto esibito quanto miope e che paradossalmente finisce per apparire agli occhi dell'immigrazione musulmana presente nell'«esagono» francese l'ennesima forma di arroganza coloniale, l'imposizione con la forza della propria volontà ammantata però dalla retorica della libertà altrui.

Dal punto di vista della politica interna, il processo ha visto invece un'evoluzione demografica di cui, per insipienza, supponenza, grandeur , anche qui, malamente intesa, non si è voluto avvertire la pericolosità. Dalla fine degli anni Settanta, le banlieues , le periferie francesi, sono ormai omogenee etnicamente e religiosamente: le classi popolari «bianche» sono pressoché scomparse, l'islamizzazione pressoché totale e l'assimilazione e l'integrazione all'interno di quei quartieri esige l'essere un musulmano come gli altri e l'islam l'orizzonte identitario insuperabile. Un islam semplificato, mitizzato, abborracciato, magari, ma che aspira a essere ciò che politicamente li identifica.

Due anni fa la cittadina di Trappes, poco lontano da Parigi, vide un poliziotto cercare di multare una giovane donna con il niqab, il velo integrale da poco proibito dalla legge francese. «Non siamo a Kabul» disse al marito che ne aveva preso le difese, aveva opposto resistenza e che fu anche lui fermato. La sera stessa cominciarono le proteste: «Quando si hanno fastidi a causa della propria religione, non si può restare indifferenti» disse un giovane a una giornalista di Le Monde . Il venerdì, nella locale moschea, feudo salafita, i toni montarono e la sera furono qualche centinaio, molti vestiti con il kamis , la veste bianca tradizionale del profeta, a protestare davanti al commissariato al grido di « Allah Akbar ». Vennero tirati petardi, esibiti revolver e coltelli... Trappes, 17 per cento di disoccupazione, 350 milioni di euro per il suo piano di rinnovamento urbano, due anni prima vincitrice del primo premio per le «città fiorite», è la dimostrazione di come la legge repubblicana francese fatichi a essere applicata in territori dove l'enorme maggioranza della popolazione non accetta che essa sia in contraddizione con la legge religiosa che la sovrasta. Come ha scritto il politologo Gilles Kepel nel suo Passion française , «la presenza ostentata del salafismo, favorita dall'abbigliamento specifico dei suoi adepti, è un sintomo nuovo e folgorante. Esprime una rottura con i valori della società francese, una volontà di sovvertirli moralmente e giuridicamente che sarebbe illusorio dissimulare e che pone delle questioni essenziali». Un anno dopo Trappes, saranno centinaia i giovani «francesi» andati in Siria a combattere in nome del jihad, «la punta dell'iceberg delle banlieues - secondo Eric Zemmour e il suo Le suicide français - cresciuto nell'odio del romanzo nazionale francese, in via di lenta secessione».

Questo «romanzo nazionale», proprio per il suo annacquarsi negli anni è visto oggi come sfidabile ed esecrabile, laddove un tempo era rispettato perché temuto, e viceversa. Per dirla con le parole del gelido, lucido Cioran, «finché una nazione conserva la coscienza della propria superiorità è feroce e rispettata. Quando la perde, si umanizza e non conta più niente». È il frutto di una lenta deriva anche semantica, l'invenzione ideologico-mondana dei sans papiers , un modo politicamente corretto per negare il fatto che si trattasse di irregolari e di clandestini, l'invenzione calcistica della Francia finalmente campione del mondo perché black-blanc-beur e non più bleu-blanc-rouge , meticcia insomma, e integrata, antirazzista, cioè razzista all'incontrario, e multiculturale. Tre anni dopo, la partita Francia-Algeria allo Stade de France vedrà i «francesi» fischiare la Marsigliese , i tifosi algerini invadere il campo da gioco...

È insomma un Paese senza coordinate quello che oggi si ritrova a convivere con la retorica ufficiale delle istituzioni e la paura individuale dei cittadini.

Come ai tempi di Bisanzio, discetta sul gender, variante moderna del sesso degli angeli, e sulla nuova religione laica dei diritti e si illude così di nascondere la fossa in cui rischia di finire seppellita una storia, una tradizione, una nazione.

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