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"I nostri pozzi in Libia? Per difenderli servono 15mila soldati"

Il generale Carlo Jean: "Ma l'intervento è lontano, il G5 è diviso: francesi e inglesi hanno obiettivi diversi dai nostri"

"I nostri pozzi in Libia? Per difenderli servono 15mila soldati"

«Per difendere davvero impianti di estrazione petrolifera e oleodotti in Libia ci vorrebbero 50.000 uomini, l'Italia potrebbe contribuire fino a 15.000». Mentre sui giornali si rincorrono ipotesi e smentite sul numero di soldati che l'Italia potrebbe impegnare (ballano cifre ben più basse, da 50 a 900), il generale Carlo Jean spazza via le tante illazioni delle ultime ore e ci riporta con i piedi per terra. Quella terra che, secondo l'esperto di strategia e geopolitica, gli stivali dei nostri soldati non toccheranno presto.

Generale, dopo i colloqui del G5 di Hannover l'intervento militare è più vicino?

«A me pare che in quel summit si siano fatte più chiacchiere che altro, la situazione della Libia continua a essere assai complessa e la comunità internazionale è divisa».

Eppure dal G5 sarebbe emersa la disponibilità a rispondere all'appello del leader libico Fayez al Serraj.

«Per l'Italia, la cui strategia diplomatica è particolarmente attenta ai formalismi, ci vorrebbe prima una richiesta ufficiale di intervento all'Onu da parte del governo libico. Che però non è ancora pienamente legittimato. Senza contare che potrebbe volerci anche un'altra pronuncia del Consiglio di sicurezza Onu, visto che la Russia ha sottolineato che la mozione contro l'Isis riguarda solo Iraq e Siria e non la Libia. Altri Paesi, che invece intervengono a difendere i propri interessi senza badare ai cavilli, potrebbero anche muoversi fuori dal quadro Onu. Ma al momento è difficile, anche perché dietro l'apparente unità ogni Paese ha un'agenda diversa».

Gli interessi dell'Italia non coincidono con quelli dei partner?

«L'obiettivo dell'Italia è stabilizzare la Libia e porre sotto controllo il tratto di costa che va da Tripoli alla Tunisia, quello in cui si concentra l'ondata di partenze dei migranti. Ci preoccupano di più le bande criminali che gestiscono il traffico che l'Isis. Alla Francia interessa la zona petrolifera dell'est in cui operano le proprie compagnie insieme alla spagnola Repsol e rafforzare il legame con il governo egiziano, anche gli inglesi hanno i loro interessi in altri campi petroliferi. Gli arabi hanno appena mandato mille pickup al generale Haftar. L'Italia può appoggiarsi solo agli americani, gli unici che, per loro convenienza, potrebbero sostenere un nostro ruolo nel Mediterraneo».

Sono circolate ipotesi sul numero di uomini che l'Italia potrebbe mobilitare per soccorrere Serraj, nell'ordine di poche centinaia.

«Sul campo ci sono già forze speciali, compresi gli incursori della Marina. Ma un vero intervento per difendere le infrastrutture petrolifere è un'altra cosa. Attualmente i libici hanno un corpo apposito di 27.000 uomini, le Petroleum facilities guard, e non bastano, anche perché non sembrano essere particolarmente pronte alla battaglia. Ci vorranno almeno 50.000 uomini. Il contingente di cui si è parlato al massimo può servire a proteggere le strutture dell'Onu. Il cui inviato, Martin Kobler, continua del resto a essere contrario all'intervento».

Che rischi politici ci sono?

«Serraj è sostenuto dalla Banca centrale libica e dalla compagnia petrolifera nazionale ma deve convincere le tante milizie in lotta tra loro a cedere parte del loro potere in cambio di qualcosa. Un intervento esterno potrebbe farlo apparire come un burattino manovrato dagli stranieri. E poi bisogna stare attenti agli equilibri: indebolire una milizia, incluso l'Isis, significa favorirne un'altra.

Meglio che non si intervenga finché la comunità internazionale non avrà una visione comune per la Libia».

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