Elezioni Regionali in Sicilia

L'ex premier spinge Grasso candidato governatore in Sicilia

Ma il presidente del Senato: resterò fino in fondo

L'ex premier spinge Grasso candidato governatore in Sicilia

Roma - Come resistere alla seconda carica dello Stato? La speranza di usarla a mo' di «bomba H», di «arma letale» che miracolosamente ribalta esiti di una guerra perduta, è da qualche settimana un chiodo fisso del segretario del Pd. Matteo Renzi aspetta le Regionali siciliane del 5 novembre con la stessa gioia di San Giovanni decollato per la lama del pugnale. Ma nonostante buoni uffici e profferte telefoniche al presidente del Senato, un tempo annoverato tra i «rallentatori» del cammino, la sua candidatura alla Regione Sicilia sta per tramutarsi in un boomerang per il Nazareno, nonché per i dem isolani già ridotti allo stremo da 5 anni di Crocetta.

Il continuo tiro della giacchetta si è rivelato gioco fastidioso, per il diretto protagonista, oggetto nelle ultime settimane di apprezzamenti a largo raggio: dalla sinistra fino al sindaco palermitano Leoluca Orlando che, dopo la trionfale rielezione, con fretta persino sospetta, ne ha parlato riservatamente sia con Grasso che con Renzi e poi apertamente come di perfetto interprete del metodo che porta il suo nome. Il cosiddetto metodo Orlando: ovvero una coalizione dei «territori» siciliani capace di mettere pace tra le famiglie in subbuglio del centrosinistra, come accaduto a Palermo. Miracolo che si sarebbe ripetuto solo in virtù del prestigio e del nome dell'ex procuratore capo Grasso. «Peso» da spendere sia per colpire a morte il successo che i grillini ritengono d'avere già in tasca, sia per sperimentare nel «laboratorio Sicilia» un possibile governissimo anti-populismo. Una battuta del forzista Micciché («Se si candida Grasso, lo voteremmo pure noi...») è sembrata avvalorare qualsiasi approdo e messo a nudo la pelosa contrarietà di Alfano.

Sia come sia, l'accelerazione provocata dalle prove di legge elettorale, che faceva precipitare urne settembrine, aveva portato nello studio al terzo piano di Palazzo Madama il gran visìr renziano Lorenzo Guerini. Grasso aveva preso tempo come si conviene tra gentiluomini. Lusingato per la proposta, e ancor di più per il ruolo di «pacificatore»: una specie di Coriolano richiamato in patria come ultima spes in grado di poter arrestare i barbari. Consenso generalizzato, forse troppo, trovando pronto pure Crocetta, cavallo matto come pochi: «Se arriva Grasso, sarò il primo della sua schiera», disse lo spergiuro.

Ma la Sicilia è terra di rigogli e gorgogli, e come disse Goethe lì «si trova la chiave di tutto». Tanto fervore deve aver impensierito il presidente del Senato, che cautamente ieri ha fatto sapere che si «dedica anima e corpo alla funzione che ricopre» e che «cercherà di portarla fino in fondo». Memore certo che sarebbe la prima volta di un presidente dimissionario per partecipare a una tenzone elettorale. Nel 2012, il suo predecessore Schifani operò il gran rifiuto, pur con sondaggi trionfali, per «non portare la carica in campagna elettorale». Finezze non praticate nell'aspra Rignano.

Ma da Grasso sì, e lasciare il Pd siciliano in braghe di tela è poca cosa, in fondo, se lo sguardo mira più lontano.

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