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La lezione di Israele: assassinare un terrorista è comunque omicidio

Il soldato ha sparato a un jihadita inerme. Il Paese sta con lui, ma il diritto non fa sconti

La lezione di Israele: assassinare un terrorista è comunque omicidio

C'è voluto un anno di scontri e di sofferenza morale, e adesso il sergente Elor Azaria, abbracciato in tribunale dalla sua mamma Oshra in lacrime, mentre il suo babbo disperato, il poliziotto Charlie, si mette le mani nei capelli e una folla disperata urla a sostegno di Elor «l'esercito è finito», è stato accusato di omicidio. Azaria ha 19 anni. Il ministro delle Difesa Yvette Lieberman come tanti altri politici dice di accettare a malincuore, ma di accogliere la decisione del tribunale. Ci vorrà un mese circa per arrivare alla inevitabile condanna che può arrivare fino a vent'anni; e fino ad allora sarà un corteo continuo, una marcia senza fine della parte più popolare di Israele; degli amici di Ramla, il paese povero in cui si trova la casa della famiglia Azaria; di uscite pubbliche dei tifosi della squadra Beitar Yerushalaim, la più radicale e strillona del Paese; e sarà il tempo delle prese di posizioni di politici di tutti i colori, strappati fra la necessità di onorare il corpo giudiziario, sempre venerato, del Paese, e invece la rabbia di vedere un soldato in estrema difficoltà condannato con un'accusa tanto pesante e, tuttavia, motivata punto per punto. Molti politici, compresa l'esponente della sinistra Shelly Yechimociv, chiedono che si proceda subito con un'amnistia ad personam, perché le colpe certo non sono tutte di Azaria, dicono, e «un soldato non può essere lasciato solo».

La folla infuriata fuori del tribunale ha fatto capire quanto la rottura sia profonda, quanto sia difficile accogliere un codice morale così retto, così monumentale e costruito con tanta determinazione così da diventare l'unico testo di un esercito, l'Idf, a contenere il dovere di preservare al massimo la vita umana e la purezza delle armi, ovvero la moderazione nell'uso della forza.

Con 97 pagine di sentenza la giudice Maya Heller a nome dei tre giudici che hanno votato all'unanimità il testo, ha respinto la linea di difesa di Azaria e l'ha accusato di omicidio. Il giovane di stanza a Hebron il 24 marzo dell'anno scorso era presente quando un terrorista si è gettato sui suoi compagni e ne ha ferito due con un accuminato coltello. Il terrorista poi è stato atterrato e ferito tanto da non essere in grado, secondo la giudice di compiere ulteriori atti di aggressione. Invece, secondo la difesa, il soldato ha sostenuto di aver pensato che il terrorista fosse ancora pericoloso e per questo gli ha sparato addosso. Di fatto il terrorista non era più in grado di colpire, e non era ancora morto, secondo i giudici. Azaria quindi, ha stabilito il tribunale, l'ha ucciso. Si capisce molto bene come la difesa del giovane abbia avuto successo: si basa nell'esperienza del pericolo senza fine, delle lunghe giornale di guerra dove in ogni angolo, si nasconde un rischio. Si nasconde nella rabbia profonda quando i compagni vengono uccisi; nella giovanissima età in cui si va per tre anni nell'esercito. Ti perseguita la memoria dei compagni che non ci sono più, i comandanti ti mettono mille volte in guardia dai pericoli e ti comandano di combattere cercando tuttavia di calmare ogni istinto aggressivo. Difficile, talvolta troppo difficile, soprattutto quando sei a Hebron, una città in cui i pochissimi ebrei rimati dopo lo sgombero (anche Hebron, come più del 90 per cento dei territori disputati è stata sgomberata) vivono in uno stato di assedio punteggiato di attacchi continui. Ma proprio martedì scorso il capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot ha detto: «Un soldato non è il bambino di tutti noi (come ha detto il padre di Azaria, ndr), è un guerriero, un soldato, che deve dedicare la sua vita a portare avanti il compito che gli è stato affidato. Non deve esserci nessuna confusione su questo».

E non ce n'è nel codice di comportamento: vi si scrive che «non tratterai mai le persone pensando al tuo beneficio, chiunque siano, ma sempre pensando alla loro essenza di persone». Ma è difficile farlo in questo Paese così perseguitato, che proprio oggi vede sorridere dalle pagine dei giornali la bellissima faccia del maggiore Hagay Ben Ari, comandante dei paracadutisti, morto a 31 anni in ospedale dopo due anni e mezzo di sofferenze dopo essere stato ferito a Gaza, dove combatteva per fare cessare la pioggia di missili sul suo Paese. Lo si ricorda come un eroe.

Lascia la moglie e tre bambini.

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