Obiettivo dei pm: scoprire i reati, certo. Ma anche dare la caccia a un sistema al quale - a torto o a ragione - si attribuisce una caratura criminale che va aldilà dei singoli episodi, e che si ritiene di dover scandagliare in tutti i suoi anfratti, alla caccia anche di fatti che reati non sono, o che non sono più, ma che servono a riempire l'affresco. Giorno dopo giorno, man mano che finiscono sui giornali le carte di una indagine sterminata durata oltre quattro anni, l'inchiesta della Procura di Genova che ha portato all'arresto del governatore Giovanni Toti e di due suoi coindagati si presenta sempre di più come l'attacco giudiziario al potere politico che da anni occupa il capoluogo e buona parte della Liguria.
Così negli otto faldoni dell'inchiesta finisce di tutto: storie esplicite di scambi di favori tra politica e affari, ma anche vicende che col cuore dell'indagine (e a volte col codice penale) sembrano avere poco a che fare. Si rifila a Toti la responsabilità di avere fatto quattro anni fa ciò che facevano tutti gli altri diciannove presidenti di Regione di un paese flagellato dal Covid, ovvero dare la caccia forsennatamente a più vaccini possibili. Si trascrivono le intercettazioni con cui, in Liguria come nel resto d'Italia, i mercanti di mascherine cercavano gli agganci per lucrare a più non posso. Cosa abbia che fare tutto questo con i reati di corruzione e di finanziamento illecito addebitati a Toti non si capisce. Ma finisce anch'esso nei faldoni - come dice ieri il Corriere della sera - «ad abundatiam», per meglio delineare il sistema. E forse per meglio esporlo all'esecrazione dell'opinione pubblica.
Il linguaggio degli indagati in alcune intercettazioni è esplicito fino alla brutalità, e, estratto a colpi di copia-e-incolla dalle carte dell'inchiesta, sui giornali fa il suo bell'effetto. Però ci sono intercettazioni che sui giornali non finiscono, anche se i pm correttamente le depositano. Una fra tutte, quella del 5 novembre 2022 tra Toti e Marco Bucci, sindaco di Genova, che parlano proprio del core business dell'inchiesta, il Porto, e degli appetiti insaziabili idi Spinelli e Gianluigi Aponte: con Bucci che dice «dobbiamo parlane con Rixi e Salvini e farci dare una mano, al limite anche con la Meloni»: ma non fa notizia perchè mai, neanche in mezza parola, nè Toti nè Bucci si mostrano interessati ad altro che al bene del porto. «Dobbiamo forzarli a trovare un accordo», dice ancora Bucci, «perché a noi fa bene anche per l'aeroporto, a noi ci interessa avere lui (Aponte, ndr) che ci porti i crocieristi qua, perché questo ci dà le linee commerciali, le linee di business, tutte quante». Altro che «dimenticarsi della centralità del porto», come Claudio Burlando l'altro giorno rimprovera ai suoi rivali e successori. Ma questa intercettazione nessuno se la fila.
Fare dell'inchiesta una inchiesta-monstre è servito. L'accusa di voto di scambio politico-mafioso potrà anche cadere quando si arriverà a processo, ma intanto ha spalancato la porta delle rogatorie. Eppure fatti concreti, reati concreti, nelle carte non ne mancavano: vistosi, espliciti. Fermarsi a quelli non bastava, evidentemente. Perché si rischiava così di colpire singoli reati, singoli indagati - come il più malmesso di tutti, l'ex presidente del porto Paolo Emilio Signorini - ma lasciare in vita il sistema.
Così in queste ore si attua una sorta di pesca a strascico, frugando i bilanci di sette anni del Comitato Change, la struttura operativa della Lista Toti, e passandone al setaccio i donatori, analizzandone qualunque rapporto piccolo o grande abbiano avuto con la Regione dell'era Toti, con una singolare inversione dell'onere del sospetto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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