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L'orrore islamico vuole cancellare noi e il progresso

L'ideologia arabo-musulmana considera crimini l'evoluzione scientifico-culturale e la parità dei sessi. Sostieni il reportage

L'orrore islamico vuole cancellare noi e il progresso

Da dove deriva la violenza che regna nello Stato islamico? Come si può spiegare la deriva islamista, un'ideologia che esalta l'odio, la sopraffazione, la segregazione della donna, la morte degli «infedeli»? I nostri editorialisti analizzano il fenomeno dell'estremismo islamico. Ecco il primo intervento, firmato da Paolo Guzzanti.

È arrivata l'ora per tutti di affrontare la questione dell'identità culturale, civile e religiosa per chi sente di appartenere a una religione. È un lusso che possiamo ancora permetterci soltanto perché non siamo integrati a una società islamica. Non parlo di religione ma di organizzazione della vita civile. Se vogliamo parlare di identità e di differenze libere, non potremo evitare il problema connesso: come impedire che l'Europa diventi un terreno di conquista islamica.

Prima di parlare dell'Isis, di servizi segreti, di crociate, di petrolio, di storia e geografia, desidero presentarmi: io non sono un credente cristiano, ma un panteista come Einstein e come Spinoza. Sono fatti miei, ma voglio sottolineare che non sono figlio di alcun fondamentalismo. E che mai mi sognerei di difendere o di offendere il cristianesimo, l'ebraismo e nemmeno l'islam dal punto di vista religioso, perché non è affar mio. Libera anima in libero essere umano, per così dire.

Quel che però so e che difenderò finché mi sarà possibile sono alcuni fatti storici fondamentali. Intanto, il fatto che Roma e il suo impero civile e non soltanto militare fu la base su cui si sviluppò in Europa un fronte sia di resistenza che di inclusione dei barbari che premevano ai confini, e che il cristianesimo riuscì ad assorbire e rendere stanziali, bilanciando in parte lo sfaldamento dell'impero. Questa impresa condusse e accompagnò la tenuta sociale e civile anche nei secoli più bui e fu la condizione per la rinascita dell'arte, dell'architettura, dell'urbanistica, della conservazione dei testi e dunque della cultura, fronteggiando un nemico costante e incessante: quello dell'espansione violenta di una barbarie che veniva dal mare e dal Nord Africa invaso e devastato e che aveva un solo scopo: distruggere e sottomettere, annullare l'identità altrui, gli «infedeli», e catturarla. Sotto questa pressione secolare, molto più lunga e devastante delle famigerate crociate, si modificò l'urbanistica italiana: per sfuggire agli islamici turchi e saraceni, gli italiani si dovettero arrampicare e fortificare sui cucuzzoli delle colline, o dove gli antichi castra militari romani facevano da base per castelli ed abbazie.

Salto ai giorni nostri, chiedendo di nuovo perdono al lettore per la chiave personale che sto usando. Nato e cresciuto come socialista ho avuto per molti anni una predilezione-infatuazione per il mondo arabo che usciva dal dominio coloniale, specialmente per l'Algeria francese nelle cui scuole i bambini arabi imparavano che i loro avi erano i biondi come Asterix. Non sapevo neanche della stretta e operativa alleanza fra Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme per un piano comune con cui eliminare gli ebrei. Dopo alcuni viaggi in Egitto, la professione di reporter mi spedì più volte in Libano, Siria, Israele, Turchia, Libia e Tunisia. Fu nel corso di quei viaggi e di quei reportage che scoprii con sgomento quali erano i crimini imperdonabili che l'intera comunità islamica imputava a noi occidentali: non il colonialismo ma ciò che noi intendiamo come Storia e l'eguaglianza civile delle donne. Ciò che l'Isis ha fatto distruggendo a colpi di mazza e di trapano le testimonianze storiche di una civiltà antichissima è sui nostri media stato bollato come un atto di barbarie incomprensibile e mostruoso, quando invece è mostruoso, sì, ma comprensibilissimo. Il risveglio dell'ideologia arabo-musulmana comprende necessariamente la negazione della Storia. Noi siamo abituati a vedere un cammino dal prima al dopo, attraverso il progresso, le scoperte scientifiche e tecniche e quelle evoluzioni culturali che noi siamo in grado di riconoscere attraverso l'architettura, la musica, la pittura, le scienze fisiche nonché la moda, l'abbigliamento, gli stili. Noi possiamo dire: «Questo è Seicento, quest'altro è tardo Rinascimento». Per la massa pressoché totale dell'islam arabo non esiste e non deve esistere storia, né stili, né evoluzioni. Del resto, mettendo da parte la solita tiritera delle impareggiabili irrigazioni agricole in Sicilia e la bellezza delle antiche moschee, è mai possibile che questa enorme quantità di esseri umani guidati nei costumi civili da una religione, non produca scoperte scientifiche? Non un farmaco, non una grande opera letteraria oltre Le Mille e una notte , musica, teatro o cinematografia di livello mondiale. No, non è razzismo il mio. Anzi, è la controprova del contrario: milioni di arabi diventati europei o americani mantenendo la loro identità religiosa sono eccellenti medici, giornalisti, scrittori, fisici, poeti, artigiani. Non è una questione di etnia, volgarmente detta «razza», ma degli effetti civili totalizzanti di una cultura religiosa che si proclama legge, norma di comportamento personale e che dunque agisce soverchiando la totalità della vita sia dei singoli che delle moltitudini, e che produce un universo totalitario.

Sulla questione della donna islamica è stato già detto molto. Ciò che imparai sul campo, fu che molte giovani donne non hanno alternativa per manifestare la loro voglia di ribellione, che aderire in maniera fanatica al radicalismo pur di avere un ruolo e una identità. Del resto, il concetto stesso di libertà come noi lo conosciamo, è considerato blasfemo: in ogni teocrazia (e quelle cristiane dei secoli passati non facevano eccezione) si parte dal principio che l'unica libertà praticabile è quella di fare esattamente quel che Dio ha comandato e che i suoi ministri applicano con le buone o con le cattive. Quando intere comunità islamiche emigrano, trovano dunque naturalmente offensivo che una religione diversa dalla loro costituisca il filo conduttore di un oggetto sconosciuto come ciò che noi chiamiamo Storia e di una identità diversa. Stupisce dunque moltissimo la stupita indignazione di fronte alle imprese dell'Isis quando esercita la sua politica culturale coranica devastando e annullando ogni segno di storia e di passate civiltà. È la loro ortodossia, di che cosa ci si meraviglia? Dov'è la sorpresa? Se arrivassero in Italia, possiamo immaginare perfettamente che cosa resterebbe di Venezia, Firenze, Roma e di tutta l'arte di ispirazione cristiana, ebraica e classica. E così arriviamo all'Isis che sbarca in Libia e al problema del contrasto più efficace che si può e si deve opporre a questa minaccia. La prima regola è che non si deve mai intraprendere una guerra con le armi usate nella guerra precedente. E non mi riferisco alle armi da fuoco ma alle armi dell'intelligenza, sorella gemella dell' intelligence . Oggi gli americani si rendono conto che lo Stato islamico non è un'organizzazione terroristica, come ha sbrigativamente detto Barack Obama, anche se del terrorismo usa la tattica. L'Isis non è una organizzazione di terroristi senza patria, ma è una patria con un territorio controllato, una amministrazione pubblica, e un esercito in espansione che conta per ora trentamila volontari motivati. Oggi che l'Isis ha messo piede in Libia è venuta di moda l'idea di muovere guerra alla Libia, come se la Libia fosse un luogo definito e l'Isis il suo occupante. A giudicare dalle analisi oggi disponibili, non sembra una buona idea. Oggi non esiste più una nazione, uno Stato di nome Libia. Lo stesso nome fu un'invenzione italiana del secolo scorso per mettere insieme la Cirenaica con terre e popoli limitrofi recuperando il nome romano della provincia. L'Isis non ha del resto il controllo dello Stato che Gheddafi teneva unito col pugno di ferro e che è tornato alle origini primordiali di una compagine di popoli, tribù, potentati militari che occupano massicciamente, anche se in contrasto fra loro l'intero spazio geografico. Divise su tutto, le fazioni libiche sono d'accordo soltanto su una cosa: non vogliono l'Isis fra i piedi e meno che mai quelli che vorrebbero liberarli dall'Isis.

C'è poi da tener presente che l'Isis, diversamente da Al Qaida, è una creatura politica e militare di tipo urbano nutrita di tecnologia occidentale: i suoi uomini sanno dominare i social network, sono impeccabili su You Tube, conoscono come le loro tasche la mentalità degli europei. Gli americani hanno capito, o almeno si spera, di aver speso inutilmente più di dieci miliardi di dollari per riconvertire le loro forze armate dalla versione adatta alle guerre del passato a quella della grande rete apolide e clandestina che ha prodotto l'undici settembre del 2001. E l'Italia del governo Renzi che cosa pensa di sapere? Su quali analisi si conforta? Il presidente del Consiglio da quali fonti si approvvigiona?

Secondo una battuta inglese di epoca vittoriana i servizi segreti sono come i rapporti sessuali fra marito e moglie: tutti sono contenti che ci siano, ma è sconveniente parlarne. Ma le parole superficiali e generiche usate dal presidente del Consiglio non lasciano sperare. Vorremmo saperne di più e poter controllare, verificare e analizzare lo stato dei lavori della politica italiana di fronte alla questione Libia, alla questione Isis e avere valutazioni attendibili sulle possibili infiltrazioni di agenti del Califfato fra i migranti.

Per ora abbiamo udito soltanto una ciarliera esibizione di ovvietà.

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